di Paola Ardizzola*

“La bellezza ai tempi del Corona”. La parafrasi del celebre titolo di Gabriel García Márquez sarà venuta in mente a molti, e sotto varie forme, in questi giorni di epidemia del Coronavirus, definita pandemia da molte istituzioni internazionali di rilievo.

Nel 2004 l’architetto israeliano Zvi Hecker, fautore di splendidi edifici collettivi e residenziali in Israele e in Germania, scrisse una Breve storia dell’umanità in cui profetizzava che presto saremmo tornati tutti a vivere nelle caverne, e questa volta per sempre. Voglio essere ottimista e pensare che, nonostante la dura prova che globalmente oggi vede il genere umano impegnato in una strenua lotta, questo non succederà, almeno non in tempi così brevi, a causa del Coronavirus.

Sebbene venerdì 13 marzo l’Italia abbia pagato il suo tributo più alto in vite umane fino ad ora, ben 250 vittime del virus in un solo giorno, vi è nel nostro Paese una seconda pandemia, più forte, che saprà sopraffare la prima: la presenza ubiquitaria della bellezza. Una bellezza che in questi giorni si espone nuda, in tutta la sua articolata complessità che si fa semplice alla fruizione di cittadini, visitatori e viaggiatori grazie alla maestria di chi in passato ha saputo fare dell’architettura la propria scrittura. Un linguaggio che poteva riempire solo le ampie pagine bianche del territorio-Italia, la cui bellezza è così difficile da descrivere fuori di retorica.

Ci provo. Sono all’estero per insegnare, e molti amici mi scrivono piangendo, sentendosi anche un po’ ridicoli come adulti. Io credo invece che sia giusto piangere in questo momento: piangiamo per il ritrovato senso della libertà, per un grande Paese, il nostro, che si è rivelato il più civile; piangiamo perché affetti da un misto di orgoglio e disperazione, piangiamo perché finalmente il ritmo vorticoso che ci impone la società contemporanea si è fermato, e ci porta a riflettere sulla nostra condizione umana.

Ma io credo che piangiamo soprattutto perché questa distanza fisica dalla bellezza – le nostre piazze, i nostri palazzi, le nostre chiese – che esperiamo quotidianamente, ovunque in Italia spesso senza rendercene conto, ci sta facendo riscoprire un rinnovato senso di collettività. È il senso della civitas, che contraddistingue la Gens Italica fin dai primordi della civiltà romana.

La civitas che ha saputo regolare i mutui rapporti nel Diritto Romano, che ha dato vita allo splendore dell’epoca dei Comuni, che ha innescato la scintilla per l’affermarsi del Rinascimento, che ha portato alla Controriforma in epoca Barocca. E, mi si passi il patriottismo, sempre per senso di civitas abbiamo avuto il Risorgimento e la Resistenza.

Abbiamo fatto tutto in nome della collettività, perché solo noi avevamo capito fino in fondo ciò che aveva rivelato Aristotele, che l’uomo è un animale sociale. Stiamo comprendendo che l’individualismo sfrenato che il modello capitalista ci ha imposto nell’ultimo secolo non ci appartiene, non ci soddisfa, non si confà alla nostra natura.

E a rivelarcelo è proprio quell’architettura muta che in questi giorni, pur nella sua perentoria presenza, si fa linguaggio dell’assenza. Perché, come diceva Bruno Zevi, l’architettura è il suo contenuto sociale. Punto. È tutto qui: siamo noi. Noi siamo piazza Maggiore, siamo palazzo Farnese, siamo il duomo di Monreale, tutti noi indistintamente. Architetture che senza di noi sono mute rappresentanti della nostra interazione sociale, che nei secoli ci ha portato a realizzare la civiltà che siamo.

Ce le portiamo nel sangue le nostre architetture, ovunque andiamo; doni gratuitamente piovuti dal passato che anelano semplicemente a essere vissuti, risemantizzati, ancora una volta ricolmati di contenuto sociale.

Il nostro senso estetico è ormai un codice genetico acquisito da secoli; non vi è differenza per noi nel gustare la bellezza di un bicchiere di Chianti con un amico – gesto ovviamente preceduto e seguito da tutta una serie di ritualità che apportano ulteriore valore estetico – rispetto alla bellezza di soffermarsi a parlare a piazza della Signoria, fermi in un cinematismo urbano-umano progettato alla perfezione. Con la nostra sociale animalità ammantiamo la realtà di poesia, ed è questo che ci invidiano in tutto il mondo. Perché non è una cosa che si può imparare, è una cosa che appartiene all’Italia e agli Italiani.

Lavoro in Medio Oriente da sette anni, ho vissuto in tre paesi diversi, in Asia e ora in Africa. Ovunque, sapevo di essere ambasciatrice della nostra bellezza. Me lo dicevano gli occhi della gente che ho conosciuto, alle mie parole sono Italiana. E mi fermo qui su questo aspetto, per non rasentare la pateticità di Lasciatemi cantare con la chitarra in mano, che resta comunque una gran verità popolar-nazionale, nonostante i puristi della cultura.

Bellezza Italiana. Dopo il tentato colpo di stato in Turchia del 2016, nelle case degli intellettuali di Ankara che mi ospitavano si cantava Bella Ciao. A piazza dei Martiri a Beirut, nella recente rivolta pacifica di ottobre 2019 in cui sono incappata, si cantava Bella Ciao. Un inno di bellezza e libertà divenuto internazionale.

Adesso siamo noi a cantarla, siamo noi ancora i generatori di bellezza, quando le nostre voci e la nostra musica inseguono il vento dalle nostre finestre, dai nostri balconi, per raggiungere gli spazi collettivi del quotidiano, facendosi così presenza del vivere comune. Tutti a casa, il sacrificio necessario per il bene comune, affinché la civitas torni ad inondare le nostre città.

Perché l’abbiamo capito in fretta, a differenza dei mangiatori di patate e dei degustatori di escargots, che non c’è economia che tenga, senza gli individui che ne sono il tessuto epiteliale. L’abbiamo imparata bene la lezione di Darwin, che non è la specie più forte, né la più intelligente che sopravvive, ma quella più incline all’adattamento. In quanto a resilienza, non ci batte nessuno. Come in creatività.

Una tromba malinconica risuona dietro la grata della finestra di un antico palazzo, un violino incanta col suo dolce suono da una piccola terrazza romana. Quanta cultura, quanta civiltà, quanta bellezza. Dall’alto delle piramidi io vedo il nostro Paese, e mi sorge nell’animo un bisogno impellente di cantare: stringiamci a coorte, l’Italia chiamò…

* Professore Associato di Storia dell’Architettura e di Sociologia Urbana presso la German University al Cairo

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