Nel giorno Papa Francesco ha deciso di abolire il segreto pontificio sugli abusi sessuali dei sacerdoti pubblichiamo il capitolo del libro La Repubblica degli impuniti (PaperFirst) dedicato alla prescrizione degli abusi sessuali compiuti su alcuni ragazzini da don Mauro Inzoli anche a causa della rogatoria negata agli inquirenti di Cremona da parte del Vaticano. Inzoli, ridotto allo stato laicale nel 2017, sta scontando dal 7 aprile 2018 nel carcere di Bollate la pena a 4 anni e 7 mesi dopo la conferma in Cassazione della sentenza d’appello.

Prima il muro di gomma opposto da Chiesa e Comunione e Liberazione e poi dal Vaticano stesso. E così decine di ragazzini di dodici o tredici anni molestati o abusati da don Mauro Inzoli, sacerdote e capo spirituale di cl, non avranno mai giustizia. Perché i loro casi si erano già prescritti ancora prima che iniziasse l’inchiesta che poi ha portato, il 29 giugno del 2016, a una condanna a soli quattro anni e nove mesi per violenza sessuale su minori grazie allo sconto di pena previsto dal rito abbreviato. Poi addirittura ridotti di due mesi in Appello e confermata in Cassazione, il 14 marzo 2018.

Il gup Letizia Platè, nelle motivazioni della sentenza di primo grado, ricorda come i genitori di alcune vittime si fossero rivolte fiduciose alle autorità ecclesiastiche già alla fine degli anni Novanta. Ma è solo nel 2014 (al termine di un procedimento ecclesiastico iniziato tra il 2009 e il 2010) che don Mauro, detto don Mercedes a causa del suo amore per le auto di lusso, finisce sotto inchiesta per gli appuntamenti che dava agli studenti del Liceo linguistico Shakespeare di Cremona o a quelli che frequentavano la chiesa Santissima Trinità. Incontri che dovevano essere momenti per consigli di vita e che invece si trasformavano in baci, carezze e toccamenti. Don Inzoli, negli anni, ha «approfittato con spregiudicatezza della propria posizione di forza e prestigio per ottenere soddisfazione sessuale, tradendo la fiducia in lui riposta dai giovani nei momenti di confidenza delle proprie problematiche personali e anche nel corso del sacramento della Confessione». Otto gli episodi di violenza sessuale contestati e per cui l’allora procuratore di Cremona Roberto Di Martino aveva chiesto sei anni di reclusione: il sacerdote ha risarcito cinque vittime con la somma di 25 mila euro a testa. Anche se i casi, in parte prescritti, di cui si sono occupati gli investigatori sono, a detta dei giudici, «venticinque-trenta».

Gli abusi, per cui si è andati a processo, sono stati commessi tra il 2005 e il 2008 non solo nell’ufficio del religioso ma anche nei luoghi di villeggiatura durante le vacanze estive. Tutti minorenni vittime di una «forte sottomissione psicologica». Contro don Inzoli era già intervenuta la Santa Sede, sotto Benedetto XVI, punendolo con la riduzione allo stato laicale. Francesco, in seguito, aveva ammorbidito la sanzione e invitato il prete a condurre una vita di «preghiera e di umile riservatezza come segni di conversione e di penitenza» per poi ridurlo nuovamente allo stato laicale nel giugno del 2017.

L’inchiesta penale era partita dopo gli esposti, tra gli altri, presentati dal sindaco di Crema e di Franco Bordo, parlamentare di Sinistra Ecologia Libertà, nel giugno 2014, solo dopo la pubblicazione sul sito della curia cremasca della decisione della Santa Sede. Prima su questa brutta storia di pedofilia c’erano state solo famiglie cui era stato garantito che si sarebbe fatto qualcosa, ma che hanno atteso invano.

Gli inquirenti sono riusciti a identificare solo alcune vittime perché il Vaticano ha sempre negato la rogatoria: con quella richiesta la procura aveva invocato di poter conoscere atti inerenti i casi di abusi sui minori, ma la risposta era che vigeva il segreto. Quello che don Inzoli – fotografato nel gennaio del 2015, quando, già sotto inchiesta, è tra le prime file al convegno sulla famiglia organizzato dalla Regione Lombardia – ha fatto prima, non potrà mai più essere perseguito. «Nonostante la Santa Sede non si sia prodigata nella consegna degli atti, sono contento che si sia giunti all’accertamento della verità. Se ci fosse stata più collaborazione, avremmo potuto sentire anche qualcun altro e in questo modo nelle testimonianze ci sarebbe stata una maggiore diversificazione» aveva detto il Pubblico Ministero. Un muro descritto anche nelle motivazioni della sentenza di primo grado: «La prima fase delle indagini compendiata in atti appare primariamente volta all’individuazione di eventuali ipotesi di reati e relative vittime di abusi sessuali […] i cui nominativi non sono mai stati comunicati dalle autorità ecclesiali nemmeno a seguito della rogatoria internazionale promossa dal pm […] In tale contesto» prosegue il giudice «veniva individuato un consistente numero di persone che riferivano di essere state vittime di attenzioni di ordine sessuale da parte di don Inzoli, quando erano ancora minorenni o da poco avevano raggiunto la maggiore età, per i cui fatti non era possibile promuovere l’azione penale per mancanza delle condizioni di procedibilità in assenza di tempestiva querela o per i quali era già decorso il termine prescrizionale».

Grazie a questi ritardi il prete, considerato «una specie di idolo meritevole di venerazione», ha potuto invadere la vita e l’intimità di molti. Un’invasione descritta da una delle vittime così: «Sono stato trattato proprio come un oggetto e mi ero sentito praticamente violentato». Vergogna, imbarazzo, disgusto i sentimenti delle vittime durante gli incontri che poi venivano giustificati dal prete citando passi biblici o episodi della tradizione ebraica come l’inesistente “battesimo dei testicoli”. «Alla vastità dell’azione commessa corrisponde anche un danno nelle giovani vittime su larga scala» chiosa il giudice. Tanto che fra le vittime del prete di cl c’è anche chi poi si è suicidato.

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