A Milano si torna a parlare di una strada dedicata a Bettino Craxi, segretario del Psi dal 1976 al 1993 e premier dal 1983 al 1987. Sua figlia Stefania, senatrice di Forza Italia, lo chiede di nuovo al Comune; il sindaco Beppe Sala chiarisce di voler ricordare Craxi in consiglio comunale, ma di non condividere l’idea di intitolargli una via: “rischierebbe di riproporre vecchie contrapposizioni. Bisogna aprire una riflessione seria. Non fermiamoci ai sì e ai no”.

Il commento della figlia: “Solita sinistra ipocrita”. Tutto ciò capita in vista del ventesimo anniversario della scomparsa del leader socialista, avvenuta il 19 gennaio 2000 ad Hammamet, in Tunisia; vi si era rifugiato ai primi di maggio del 1994 per sfuggire alla giustizia italiana, dopo essere stato coinvolto in vari filoni dell’inchiesta milanese “Mani pulite”.

Facciamo un passo indietro. Della stagione di Tangentopoli, Craxi è tuttora un totem, per i detrattori e per i sostenitori. Condannato in via definitiva in alcuni processi, assolto in altri, ha assunto quel ruolo simbolico per vari motivi. Primo, perché è stato la personificazione dell’Italia rampante (e spesso arrogante) degli anni Ottanta, quando cercò, con discreto successo, di contrastare l’egemonia a sinistra del Pci grazie a un patto d’acciaio con la Dc di Andreotti e Forlani. Secondo, perché consentì che il Psi si trasformasse spesso – dal centro alle periferie – in un comitato d’affari.

Terzo, è stato l’unico leader a rivendicare in Parlamento, il 29 aprile 1993, la sua colpevolezza per quel che riguarda il solo reato di finanziamento illecito (non quello di corruzione): tutti i partiti – secondo lui – ricorrevano alle tangenti per autofinanziarsi, “anche quelli che qui dentro fanno i moralisti”. E in effetti non aveva tutti i torti. Di certo, Craxi è stato anche uno statista molto importante per il nostro Paese, cui cercò di restituire una centralità, a costo di scontrarsi con gli alleati, Stati Uniti in testa.

Lo stesso presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel 2010 scriveva che la figura del leader socialista “non può venir sacrificata al solo discorso sulle responsabilità sanzionate per via giudiziaria”. Giusto. Però quella figura di statista è stata offuscata da un errore irrimediabile: la scelta di sottrarsi al giudizio da parte della magistratura, uno dei pilastri dello Stato democratico e di diritto che egli aveva rappresentato.

Fatte questa premesse, Craxi ha un curriculum degno dell’intitolazione una strada, in particolare a Milano, metropoli dove visse, crebbe politicamente e cementò il potere? Prima di azzardare un’opinione, occorre porsi altri quesiti. Il leader del Psi la merita come protagonista dell’era di Tangentopoli? O come “eroe” della resistenza nei confronti del presunto giustizialismo delle toghe contro i partiti? Oppure la merita così tanto come statista da rendere ininfluenti inchieste giudiziarie e condanne? Qualcuno di questi ultimi tre aspetti può essere taciuto?

L’ultima domanda – che include le altre – è rilevante. Perché la legge italiana prevede che la scelta di intitolare una strada a un personaggio, approvata dalla giunta comunale, debba poi essere motivata nella relazione presentata al prefetto; a quest’ultimo spetta la decisione finale, una volta ottenuto il parere della delegazione locale della Società di Storia patria. Che cosa si leggerà in quella eventuale relazione comunale? Una storia realistica oppure censurata? Magari solo giustizialista o innocentista?

C’è un’altra questione da considerare, che riguarda la storia pubblica del nostro Paese. Nell’Ottocento, dopo il Risorgimento e con l’Unità, si decise di legare i nomi di strade e piazze a eventi o a protagonisti di quell’epopea, ovviamente in una chiave gradita al Regno d’Italia sabaudo. Poi venne l’epoca dei nomi legati ai protagonisti della Grande Guerra, quindi a quelli fascisti, cancellati dopo la Liberazione e sostituiti con nomi legati alla Resistenza e alla Repubblica.

Un modo efficace per creare radici identitarie a seconda dei periodi storici. Oggi qualcuno potrebbe avere da ridire su una delle tante piazze e strade intitolate al generale Luigi Cadorna (gettò sui soldati, che aveva mandato al massacro, la colpa del disastro di Caporetto), molti altri hanno opinioni contrastanti sulle varie vie Almirante o Togliatti, per fare due nomi.

Però – nel XXI secolo – prima di tutto non sembra deporre a favore dell’intitolazione a Craxi la pretesa (neppure troppo velata) che diventi un risarcimento rispetto a un’inesistente persecuzione giudiziaria o, addirittura, si trasformi in un revisionismo processuale ufficioso. Si potrebbe obiettare che ci sono già una decina di strade dedicate Craxi: l’ultima nel 2018 a Sesto San Giovanni; altri progetti sono stati stoppati dalle prefetture, per esempio in agosto a Sant’Angelo Lodigiano. Anche i prefetti sono ondivaghi, insomma. Ma il problema resta.

Alla luce di queste considerazioni, finalmente un’opinione – al netto di polemiche e moralismi estemporanei – si può azzardare sul “caso Milano”. Ciascuno di noi ha il diritto di giudicare come preferisce il ruolo politico di Bettino Craxi o di intitolargli luoghi privati aperti al pubblico. Per quel che riguarda i luoghi pubblici, non si può prescindere dal già citato errore madornale: Craxi – scegliendo fuga e latitanza – ha violato e tradito le leggi dello Stato democratico che aveva rappresentato ai massimi livelli.

Quello Stato conferisce l’onore della intitolazione di una strada o una piazza a qualcuno che lo abbia altrettanto onorato, cosa che in questo caso non è accaduta. Cosicché il “sì” all’intitolazione manderebbe in tilt la credibilità della Repubblica, colta in flagrante mentre premia chi, fuggendo, non ha voluto rispettare regole dettate dalla Costituzione su cui ha giurato. L’Italia può permetterselo?

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