La storia di Deniz comincia in una piccola provincia dell’Anatolia Orientale e, a dire il vero, inizia senza di lui. Siamo negli anni Trenta, fra le rocce scure dei monti Munzur, dove a tavola si serve il keşkek – una sorta di stufato di agnello, orzo e grano – e dove i dolci hanno il sapore delle bacche di gelso. La popolazione qui è in prevalenza curda e di fede alevita – aderisce cioè a una setta dell’Islam distante dalle posizioni sunnite, maggioritarie invece in Turchia – due peculiarità che mal si sposano con il volere del governo centrale. Un governo che anzi vorrebbe omologare lo Stato e disfarsi di una cultura che etichetta come “un repellente ascesso”. Tra il 1937 e il 1938 le truppe del generale Atatürk mettono dunque a ferro e fuoco la regione, uccidendo fra i 50 e i 70mila civili e deportando i sopravvissuti. Non solo, è proprio in quest’occasione che alla provincia viene strappato l’antico nome persiano di Dêrsîm (“Porta d’argento”) in favore di un più autarchico Tunceli, che in turco significa “Pugno di rame”. Insieme alla poesia da queste terre se ne va poi anche la speranza quando negli anni Ottanta la storia si ripete, deflagrando in una seconda ondata di “turchità” (türklük) e costringendo migliaia di famiglie ad abbandonare le proprie case per cercare rifugio nell’Europa continentale. Così fanno anche i genitori di Naki, che riparano in Germania portandosi appresso i canti e i dolori di un intero popolo. Ed è con questi ricordi non suoi che cresce Deniz, che il 9 luglio 1989 nasce a Düren, sulle sponde del fiume Ruhr, che a scuola parla tedesco e studia Goethe, ma che a casa mangia keşkek e ascolta i racconti dei massacri di Dêrsîm.

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Deniz Naki, la storia del calciatore curdo che combatte per la libertà tra squalifiche a vita in Turchia e attentati in autostrada in Germania

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