Quattro righe inserite nella legge di bilancio rischiano di far tornare indietro di quasi dieci anni la lotta al gioco d’azzardo. “Con decreto del ministero dell’Economia”, si legge all’articolo 92, comma 4 del testo depositato in Parlamento, “sono fissate regole uniformi su tutto il territorio nazionale” per il collocamento di slot machine e video lotterie. In poche parole lo Stato vuole stabilire paletti uguali per tutti su dove piazzare le macchinette, ad esempio a una certa distanza da luoghi sensibili come scuole, oratori o centri per anziani. Cosa che in realtà avviene già da anni grazie alle centinaia di regolamenti emanati da comuni e Regioni in base alle esigenze specifiche di ciascun territorio. Ma ora queste norme potrebbero essere superate da regole decise esclusivamente da Roma. Il timore è che alla fine saranno più conformi alle richieste delle aziende attive nel settore, dal momento che l’intera operazione è pensata in vista di una maxi-gara in partenza nel 2020 con cui verranno riassegnate tutte le concessioni. Gli attuali sottosegretari al Mef Alessio Villarosa (M5s) e Pier Paolo Baretta (Pd), contattati più volte da ilfattoquotidiano.it, hanno preferito non commentare la vicenda.

E mentre il caso rischia di deflagrare all’interno della maggioranza – con molti esponenti del Movimento 5 stelle già sul piede di guerra – gli amministratori locali fanno quadrato. “Bisogna stringere le maglie del gioco d’azzardo, non allargarle”, commenta a Ilfattoquotidiano.it il primo cittadino pentastellato di Caltanissetta, Roberto Gambino. “Se una città vuole imporre regole più stringenti, il governo non può impedirlo”, gli fa eco il vicesindaco di Napoli Enrico Panini. Un fronte comune che si estende da Nord a Sud e prescinde dal colore politico. “Non si può vanificare tutto quello che è stato fatto negli anni contro questa piaga”, aggiunge l’assessore a sanità e servizi sociali della Lega in Veneto Manuela Lanzarin.

A segnalare per primo la vicenda è stato pochi giorni fa dalle pagine del Fatto il senatore pentastellato Giovanni Endrizzi, da sempre impegnato nella lotta all’emergenza della ludopatia. Già, perché secondo un’indagine dell’Istituto superiore di sanità nel nostro Paese ci sono 1,5 milioni di giocatori “problematici” con sintomi legati a questa patologia. Eppure per lo Stato si tratta anche di un business molto redditizio: solo nel 2018 – dice un rapporto dell’Agenzia dogane e monopoli – gli incassi hanno raggiunto i 10,4 miliardi di euro, per una spesa complessiva da parte dei cittadini italiani che è arrivata a toccare la quota record di 106,8 miliardi (+5 per cento rispetto al 2017). Il tema è di quelli storici per il Movimento, tanto che uno dei primi provvedimenti del precedente esecutivo – contenuto nel decreto Dignità – fu l’introduzione nel nostro Paese del divieto assoluto di diffondere qualsiasi forma di pubblicità relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro. Eppure alcune norme inserite nell’ultima Legge di Bilancio sembrano andare in direzione contraria. Il pacchetto comprende un aumento delle tasse sulle vincite (nell’ottica di fornire un ulteriore deterrente ai cittadini), il via libera alla gara che entro il 2022 dovrà riassegnare agli operatori tutte le concessioni su 250mila macchinette e 58mila video lotterie e, infine, il varo di nuove regole sulla loro distribuzione territoriale. Secondo Endrizzi, però, il numero di apparecchi messo a bando è “troppo alto” (una prima riduzione del 34 per cento è avvenuta con la manovrina dell’aprile 2017, ndr). E a questo si aggiunge “l’intervento a gamba tesa del governo” sul loro collocamento attraverso l’apposito decreto. Una storia che va avanti dal 2012, quando l’allora ministro della Salute del governo Monti Renato Balduzzi riformò in modo organico il settore. E attribuì al ministero dell’Economia proprio il compito di stabilire i luoghi dove non possono essere installate le slot machine. Ma da allora niente è stato fatto.

È per questo che nel corso degli anni comuni e Regioni hanno deciso di fare di testa propria, da Torino a Palermo, passando per Milano, Bologna, Firenze e Roma, solo per citare le più grandi. Anche a Napoli, dove un regolamento su video-lotterie e sale giochi esiste già dal 2015. E prevede, fra le altre cose, una distanza minima di 500 metri “misurati per la distanza pedonale più breve” da scuole, università, luoghi di culto, impianti sportivi, case di cura per anziani, spiagge, parchi pubblici e persino musei nazionali. “Siamo usciti indenni da decine di ricorsi al Tar e ciò dimostra la bontà di quanto fatto finora”, spiega a ilfattoquotidiano.it il vice di De Magistris a Napoli Enrico Panini. “Una legge nazionale potrebbe anche essere utile”, ammette, “ma l’autonomia degli enti locali deve essere salvaguardata. Non vorrei che l’obiettivo del governo alla fine sia quello di ricalcare vecchie pulsioni, cioè reperire risorse per le finanze pubbliche attraverso le nuove gare per gli operatori”. Un timore condiviso anche dall’assessore leghista in Veneto Lanzarin, prima sostenitrice di un provvedimento entrato in vigore nella sua Regione solo pochi mesi fa. A suo parere “va rivisto l’intero sistema”, soprattutto se si pensa che la ludopatia “è diventata una piaga sociale distruttiva per intere famiglie”. Lo Stato, aggiunge, “dovrebbe difendere il coraggio mostrato da tanti sindaci del nostro Paese, anziché pensare ad incassare scaricando tutto il resto sulle nostre spalle”. In materia di costi, infatti, sottolinea da Caltanissetta il primo cittadino Gambino, “spetta poi a sanità regionale e a servizi sociali comunali intervenire, specie quando il gioco si trasforma in patologia”. E dove c’è crisi, le dipendenze aumentano. “Qui a Caltanissetta tanta gente vive centri scommesse e slot machine quasi come un rifugio. Solo i sindaci conoscono davvero a fondo le esigenze del proprio territorio”.

In realtà un primo passo per mettere fine al tira e molla con Roma e trovare una quadra comune sul gioco d’azzardo è stato fatto nel 2017, quando Stato ed enti locali hanno siglato un’intesa in Conferenza unificata. “In sostanza quel documento prevedeva l’approvazione di nuove regole su scala nazionale, salvaguardando in extremis le normative locali più restrittive”, chiarisce Simone Scagliarini, associato di diritto pubblico all’università di Modena e Reggio Emilia. “Un compromesso raggiunto a stento”, aggiunge, “ma basato su un principio di per sé ragionevole: che senso ha che due Comuni vicini abbiano regole radicalmente diverse tra loro?”. A suo parere, però, il rischio che “i paletti stabiliti dall’attuale governo possano essere troppo ‘gentili’ è pienamente fondato, vista la fatica con cui sono state condotte le trattative due anni fa”. Fermo restando, conclude, che “un decreto ministeriale difficilmente può scavalcare delle leggi regionali, verrebbe subito impugnato”. Scenario a cui gli amministratori locali si dicono già preparati. Soprattutto perché, in vista della nuova gara con cui dovranno essere redistribuite tutte le macchinette, le pressioni da parte delle aziende si stanno facendo sempre più forti. Non è un caso, allora, che nemmeno l’Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci) sia stata informata della norma. E che dal ministero del Tesoro non confermino quale manina sia intervenuta per inserirla, né a quale scopo. Specie se si pensa che, dopo l’avvicendamento di Lega e Partito democratico a Palazzo Chigi, la delega ai giochi non è ancora stata assegnata.

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