Tutte le volte che pensate che l’Italia faccia schifo, che sia un Paese in declino, pensate a una persona. Perché nella nebulosa delle vostre relazioni e conoscenze, ci sarà sicuramente qualcuno che digrigna i denti e diamine ci mette tutto se stesso per migliorare le cose, che ha talento nel suo campo, che non si tira indietro.

Il nome mettetelo voi, la storia è la vostra e l’Italia pure. Anche in questa che voglio raccontarvi, scoperta da poco ma non per questo eccezione, ci metterò solo pochi nomi, ché non serve promuovere marchi d’azienda né pubblicizzare cognomi (anche se lo meriterebbero): è un esempio di un Esempio, di un’Italia eccellente e riconosciuta come tale, ma comunque silenziosa. Un’Italia che ha la forsennata abitudine di cercare soluzioni ai problemi, anche a quelli che non sono i suoi.

La mancanza di circa 23mila neurochirurghi nel mondo dovrebbe essere tutto fuorché un problema proprio dei neurochirurghi. È un vuoto che vuol dire 5 milioni di procedure non eseguite per mancanza di specialisti, con il rapporto tra neurochirurghi e popolazione negli Stati Uniti di 1/62.500 e in Africa crollato fino a 1/12 milioni.

Semmai il problema dei neurochirurghi è la formazione, impossibile nei Paesi in via di sviluppo ma dannatamente complicata anche in Occidente. La preparazione di uno specialista ha una durata di circa 15 anni ed è soprattutto teorica; con la pratica, lentissima e delicatissima, che spesso arriva attraverso costosi corsi di dissezione su cadaveri a proprie spese (tra i mille e i 2500 euro per 2-3 giorni di corso). Ma la branca resta tra le più complesse della chirurgia e ogni anno il 3,4% di neurochirurghi nel mondo affronta almeno una causa legale. C’è un enorme e costoso problema di formazione che causa una colossale e mortale mancanza di professionisti.

Quando nel 2011 Federico N., 26 anni freschi, lascia Catania per la borsa di specializzazione e la neurochirurgia a Milano, magari tutto questo per lui era quasi un miraggio. Che modellazione e stampanti 3d avrebbero potuto spingere più in là la medicina, però, era un pensiero diverso: un’intuizione.

Lavorando alla neurochirurgia di Brescia incontra Giannantonio S., giovane mentore che presto diventa amico e da lì socio. I talenti si sommano: Federico porta una stampante 3D in reparto, iniziano ad utilizzare i modelli tridimensionali ai casi chirurgici operati insieme, realizzano la prima applicazione della fotogrammetria alla neurochirurgia: in altre parole, modellano in tre dimensioni gli scenari chirurgici così da far rivivere, a chiunque voglia approfondire un caso o letteralmente toccarlo, la tridimensionalità dell’anatomia reale. Wow.

È un’idea che può cambiare molte vite: le loro, certo, ma soprattutto quelle di milioni di pazienti incurabili per quegli sterminati angoli di mondo dove vivono.

Nel 2015 nasce un’azienda: Salvo e Marco, i fratelli di Federico, si uniscono allo sforzo economico; Nicola P. e Marco S., due programmatori/modellatori 3D, al team. Con loro un gruppo di studenti e specializzandi in neurochirurgia. Intravedere le potenzialità al di là delle sfide: la prima vera prerogativa di chi è ambizioso.

Le prime app vedono una progressiva escalation negli store: sono mezzo milione i download nel mondo dopo 24 mesi. Basta? No. Rilanciare: la seconda vera prerogativa. Per crescere c’è bisogno di uno sviluppo ulteriore e nuovi fondi, ed è per questo che Federico e Giannantonio incontrano Paolo R., business advisor con 20 anni di esperienza. A una grande visione serve un grande supporto e quindi una grande entità; e Paolo propone qualcosa di immenso, che appare addirittura assurdo: concorrere per Horizon 2020, il più importante e pressoché inarrivabile programma di finanziamento tecnologico in Europa.

Due anni di lavoro per la selezione e primo tentativo alla prima fase: superata, ma i finanziamenti arrivano alla fase tre. Allora primo tentativo della seconda fase: bocciati, ma con risultato eccellente. Non si può mollare, nemmeno se ciò significa altri mesi di lavoro e la delusione di nuovi tentativi andati male. È nell’aprile 2019 che arriva il quarto tentativo, quasi per inerzia. In questi anni, però, non sono rimasti a guardare e sperare: registrano il brevetto di un simulatore neurochirurgico ibrido in grado di fondere realtà fisica e realtà aumentata. “Immagina di toccare un cervello vero e di muoverti al suo interno guidato dalla realtà virtuale. Un’idea rivoluzionaria”. Federico lo spiega così fuori dall’ospedale.

Il 10 luglio 2019, una mail: convocati a Bruxelles per il colloquio finale. Di 2mila aziende solo 200 erano state selezionate: Federico, Giannantonio e Paolo sono tre italiani alla volta dell’Europa e dei suoi pregiudizi sull’affidabilità dei nostri connazionali. Cronometro rispettato, mezz’ora di esame come da protocollo, e colloquio perfetto: portano lì uno dei loro simulatori e lasciano la commissione attonita… con un cervello tra le dita.

La mattina dello scorso 10 agosto la loro vita cambia: vincono Horizon 2020. Da quel giorno sono al lavoro per cambiare quella di milioni di persone. Quando pensate che il nostro Paese faccia schifo, pensate a Federico e a Giannantonio. Due ragazzi, due italiani.

Articolo Precedente

Sigaretta elettronica, l’allerta dell’Istituto superiore di sanità: “Vigilare su malattia polmonare di chi la utilizza”

next
Articolo Successivo

Firenze, al Mayer ricostruito un orecchio a un paziente 13enne grazie alla stampante 3D

next