C’è un libro che, più di altri, a mio avviso coglie lo spirito dei tempi che stiamo vivendo. Il paradosso è che questo romanzo è stato pubblicato nel 1938. S’intitola La cripta dei Cappuccini e il suo autore, lo scrittore e giornalista austriaco Joseph Roth, racconta la storia di un giovane e aristocratico ufficiale dell’esercito austriaco, seguendone le avventure a cominciare dai mesi precedenti l’inizio della Prima guerra mondiale fino all’annessione dell’Austria da parte della Germania nazista. Ma la politica, in questo romanzo, non si manifesta. Al centro della narrazione non ci sono né la barbarie delle dittature né il crescente antisemitismo, che pure il protagonista lamenta, e neppure le sue amare considerazioni sulla fine di quell’Europa che, pur divisa politicamente, era culturalmente unita. Il romanzo parla del silenzio di chi, suo malgrado, assiste impotente al “tramonto del mondo”.

Di fronte alla percezione diffusa dell’imminente catastrofe verso cui i popoli d’Europa si stavano gettando come una mandria in corsa verso un precipizio, gli uomini e le donne di quella generazione non riuscivano a far altro che brindarci allegramente sopra. “Ogni faccenda privata era d’un tratto passata nel regno di ciò che era pubblico” fa dire l’autore al protagonista. “Si dava a credito e si prendeva a credito, accettavamo doni e ne facevamo, restavamo debitori e pagavamo debiti altrui. Così vivranno gli uomini il giorno prima del giudizio universale: succhiando nettare da fiori velenosi, lodando il sole che si spegne come dispensatore di vita, baciando la terra che si dissecca come madre della fertilità”.

Joseph Roth parlava della fine di una civiltà millenaria, cancellata da una nuova bramosia borghese e futurista (Roth però non usa quest’ultimo termine) e dall’emergere delle masse come indistinto istrumentum regni. Ma io trovo che questo atteggiamento, da lui riscontrato per esperienza diretta, sia del tutto sovrapponibile a quello che noi, più d’un secolo dopo, stiamo sperimentando al cospetto di una diversa, e molto più concreta, finis mundi.

Le steppe e le foreste siberiane sono in fiamme da settimane, l’Amazzonia brucia, i ghiacci dell’Antartide si spaccano e si ritirano come candide coperte, lasciando emergere terre perdute che non vedevano il sole da millenni o forse da milioni di anni, le temperature medie continuano a salire stagione dopo stagione, aumentando l’energia totale presente nell’atmosfera e pertanto scatenando eventi climatici sempre più violenti e distruttivi, sia d’estate sia d’inverno. Intere specie animali, fondamentali per l’equilibrio biologico del pianeta, si stanno estinguendo a causa dei pesticidi, dei diserbanti e degli altri inquinanti che quotidianamente, in massa, continuiamo a vomitare, e negli oceani sono apparsi nuovi continenti, formati dai nostri residui plastici, frammenti che per azione del mare e del sole si scompongono pian piano in microfilamenti che finiscono nella catena alimentare e, pertanto, nel nostro corpo, con conseguenze imprevedibili sulla nostra salute. Ma non riusciamo a far altro che continuare la nostra solita esistenza, brindandoci, di fatto, su.

Le storie, i racconti, i film, i romanzi non nascono per intrattenerci. L’intrattenimento è, per così dire, un epifenomeno. Se ci spingiamo fino alle radici del gesto del narrare scopriamo che esso altro non è altro che un processo culturale escogitato per rispondere a una specifica esigenza biologica: la nostra conservazione come individui, come comunità e come specie. Nell’Iliade di Omero ci sono interi brani dedicati al modo in cui riparare o costruire una nave, solo per fare un esempio. Ma un greco dell’epoca ci trovava istruzioni precise su cosa fare o non fare durante la spartizione di un bottino di guerra, su cosa dire o non dire per conservare una leadership condivisa, capace di unire e motivare prìncipi e soldati e così via. Le narrazioni, come osserva spesso il mio maestro Alessandro Baricco, sono bussole lasciate in eredità a tutti noi, preziosi strumenti per orientarci nella vita.

La Cripta dei Cappuccini di Joseph Roth non ci racconta nulla dei cambiamenti climatici, ma ci dice molto su come rischiamo di reagire di fronte alla fine del mondo: rimanendo inermi, immobili e continuando a succhiare il nettare della vita quotidiana, anche sapendo che ormai quel nettare è avvelenato e ci ucciderà. Provate a leggerlo o a rileggerlo, in questo scampolo d’estate che rimane. Perché nella malinconica e struggente nostalgia del protagonista, nella sua lucida analisi di quanto si può somigliare a vitelli mansueti al cospetto d’un inesorabile macellaio, io ho intravisto anche un invito. Un appello a comportarci diversamente in circostanzi simili. Una preghiera silenziosa all’umanità del domani, che, dal punto di vista di Roth, è quella di oggi: siamo noi. Uno sprone a smettere di brindare sulla fine del mondo e ad accollarci (perché, lo so, è un accollo) la responsabilità individuale e collettiva di fare, fin da subito, tutto quanto è in nostro potere per evitarla. A qualsiasi costo.

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