“Non ha commesso il fatto“. Per questo motivo la Corte d’Assise d’Appello di Milano ha assolto Stefano Binda, il 51enne imputato per l’omicidio di Lidia Macchi, la studentessa di 21 anni violentata e uccisa con 29 coltellate nel gennaio 1987, in un bosco a Cittiglio, nel Varesotto. I giudici hanno respinto la richiesta del sostituto pg Gemma Gualdi, che aveva proposto di confermare la sentenza di carcere a vita inflitta in primo grado a Varese. Sentenza che è stata ribaltata. La prima conseguenza della decisione dei giudici è l’immediato ritorno in libertà di Binda. Già in serata l’uomo lascerà il carcere di Busto Arsizio, in cui si trovava dal 15 gennaio del 2016.

In mattinata il 51enne aveva reso dichiarazioni spontanee durante il processo, ribadendo la sua innocenza: “Non ho ucciso io Lidia Macchi, sono innocente, estraneo a tutta la vicenda. In quel periodo ero a Pragelato – ha detto – e non ho mai spedito la lettera” contenente la poesia In morte di un’amica spedita il giorno del funerale e considerata dall’accusa la prova regina contro Binda. Il sostituto pg, Gemma Gualdi, da parte sua, durante la requisitoria aveva chiesto la conferma del carcere a vita: “Il poeta anonimo è certamente Stefano Binda” e “Binda ha scritto quella lettera perché ha vissuto i fatti descritti” ha sostenuto il procuratore. Che nel suo intervento ha ricordato come c’è una “sovrabbondanza di prove” della conoscenza tra vittima e presunto carnefice. “Chiunque abbia scritto quella poesia – ha spiegato il pg in aula – è qualcuno che descrive dei fatti, parla inequivocabilmente di ciò che ha visto e vissuto, non è una poesia generica. Chi ha scritto quella lettera e l’assassino”. Per il rappresentante dell’accusa non c’è alcun dubbio sul fatto che il foglio su cui è scritta la poesia incriminata corrisponda a quello trovato a casa di Binda e dunque che Binda, che avrebbe fornito versioni differenti di quel giorno, “è l’autore di quella poesia”. Per questo motivo il pg ha chiesto la conferma della sentenza di primo grado della Corte d’assise di Varese, che aveva condannato il 51enne all’ergastolo per omicidio volontario aggravato dalla violenza sessuale.

Diametralmente opposta, invece, la versione della difesa di Binda: “Vorremmo che questa immagine di Stefano Binda di un pazzo con la doppia personalità venisse cancellata – ha detto PatriziaEsposito, che con Sergio Martelli ha difeso il 51enne – Non ho sentito una sola parola sul movente, che è stato costruito dopo la consulenza psichiatrica. In questi anni Binda non ha mai compiuto un gesto di violenza, e ha sempre pagato per i suoi errori”. Il legale aveva chiesto l’assoluzione del suo assistito perché non “ha ucciso Lidia” e di riformare la sentenza di condanna all’ergastolo. L’avvocato aveva aggiunto: “Binda ha passato 50 anni senza problemi, non ha condanne e non ha mai avuto guai togliendo qualche banalità legata alla droga” e dunque alla tossicodipendenza di cui ha sofferto in passato.

Stefania Macchi, sorella della vittima, ha subito commentato l’assoluzione di Binda, chiedendo verità su quanto accaduto nel 1987: “Abbiamo sempre atteso e aspettato per 32 anni sperando che prima o poi si sapesse la verità, Lidia non ce la restituisce nessuno e neppure questi anni senza di lei. Anche adesso vogliamo sapere la verità su quello che è accaduto quella sera, è una cosa che chiunque vorrebbe sapere”. “Credo che servisse un minimo di approfondimento in più, forse è stata una sentenza affrettata” ha aggiunto la sorella di Lidia Macchi. Atteso il ricorso del legale di parte civile, l’avvocato Daniele Pizzi, contro l’assoluzione.

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