Quel che era prevedibile è di fatto accaduto. Il blocco imposto dal governo cinese all’importazione di “rifiuti sporchi o contenenti sostanze pericolose”, in vigore dal gennaio 2018, ha allontanato il problema, senza risolverlo. Anzi, ci troviamo oggi sull’orlo di una crisi globale dei rifiuti, visto che solo il 9% della plastica prodotta al mondo viene riciclata, mentre il resto finisce nelle discariche o è disperso nell’ambiente.

Dopo il bando di Pechino, motivato da ragioni ambientali, i tre quarti di tutta la produzione globale di rifiuti di plastica contaminati, misti o non riciclabili che dal 1992 entrava negli impianti cinesi e a Hong Kong, si è riversata sui paesi limitrofi. Vietnam, Thailandia, Malesia, Filippine e Indonesia, inizialmente ottimisti verso l’impulso che il settore dei rifiuti – che solo in Cina offre lavoro a 1.5 milioni di persone con un valore di 200 miliardi di dollari – poteva dare alle economie locali, si sono ben presto ricreduti. Privi degli impianti necessari a smaltire la quantità di rifiuti in entrata, si sono visti sommersi dagli scarti del mondo occidentale ai quali si aggiungono quelli domestici. Il risultato sono pile di plastica e rifiuti solidi non riciclabili abbandonati in discariche improvvisate, gestite in impianti illegali o peggio ancora bruciate all’aria aperta, con contaminazione di aria, acqua e suolo, la cui gravità è confermata da uno studio della Global Alliance for Incinerator Alternatives (GAIA).

I primi a cercare di regolamentare il flusso sono stati Thailandia, Malesia e Vietnam che già l’anno scorso hanno iniziato ad organizzare l’offensiva della spazzatura, elaborando leggi restrittive all’ingresso. La scorsa settimana è arrivata la presa di posizione del presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte che ha minacciato il Canada di serie ripercussioni diplomatiche se 69 container di rifiuti non riciclabili, entrati illegalmente nel Paese, non fossero tornati al mittente. Di fronte all’iniziale esitazione del governo di Ottawa, il presidente filippino è arrivato a minacciare di svuotare il contenuto dei container in acque canadesi. “Le Filippine sono uno stato sovrano indipendente e non possono essere trattate come la pattumiera da una nazione straniera”, ha detto Salvador Panelo, il portavoce del presidente, interpretando di fatto il pensiero di tutti i governi coinvolti nella crisi dei rifiuti.

Come la Malesia, che secondo Greenpeace sarebbe passata dalle 168,500 tonnellate di rifiuti in entrata nel 2016 alle 456,000 tonnellate nei soli primi sei mesi del 2018. Flusso che è stato accompagnato dal fiorire di impianti illegali su tutto il territorio. Dopo aver rispedito in Spagna cinque container lo scorso mese, il governo di Kuala Lumpur ha dichiarato di aver scoperto altri 60 container di rifiuti illegalmente importati e provenienti da Usa, Canada, Uk e Australia.

Non se la passa meglio l’Indonesia, già alle prese con un grosso problema di inquinamento domestico da plastica che finisce per lo più in mare, difficile da controllare in un territorio costituito da più di 18.000 isole.

Una notizia positiva giunge dalla Conferenza delle Parti della Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e il loro smaltimento svoltasi in Svizzera a maggio. Su richiesta della Norvegia è stata stabilita, a partire dal 2020, l’impossibilità di esportare rifiuti senza previa approvazione del Governo del Paese destinatario. Questo non vale per gli Usa che hanno firmato ma non ratificato la Convenzione.

Molti analisti speravano che il bando cinese desse il via a un circolo virtuoso che impegnasse i vari paesi a trovare soluzioni domestiche, dal riciclo alla creazione di impianti a norma. Così non è stato e le previsioni sono nere. Uno studio dell’Università della Georgia, prevede che il bando cinese provocherà entro il 2030 una dispersione di circa 111 milioni di tonnellate di plastica in tutto il mondo.

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