Cosa succede se Armando Siri non si dimette prima del prossimo Consiglio dei ministri? La vicenda del sottosegretario indagato per corruzione non è soltando una questione politica. L’allontanamento di Siri dall’esecutivo, infatti, può diventare anche un caso tecnico. Qual è l’iter che può portare alla cacciata del sostenitore della flat tax, accusato dalla procura di Roma di essersi fatto corrompere con 30mila euro da Paolo Arata? Ieri Giuseppe Conte ha annunciato che nel prossimo consiglio dei ministri, probabilmente convocato per mercoledì 8 maggio, chiederà la revoca della nomina dell’esponente del Carroccio. Il quale lo ha anticipato di qualche minuto, diffondendo una nota in cui dice: “Confido che una volta sentito dai magistrati la mia posizione possa essere archiviata in tempi brevi. Qualora ciò non dovesse accadere, entro 15 giorni, sarò il primo a voler fare un passo indietro, rimettendo il mio mandato, non perché colpevole, bensì per profondo rispetto del ruolo che ricopro”.

I tempi, però, sembrano essere più stretti. E se Siri non anticipa le sue dimissioni la partita si giocherà tutta in Consiglio dei ministri. La revoca dell’incarico a un sottosegretario, annunciata da Conte, segue una procedura analoga a quella della sua nomina, stabilita dalla legge sull’attività del governo, la 400 del 1988. All’articolo 10 si prevede che “i sottosegretari di Stato sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro che il sottosegretario è chiamato a coadiuvare, sentito il Consiglio dei Ministri”. Conte dunque “sentito il Consiglio dei ministri” (dicitura che fa ipotizzare come un eventuale voto non sia determinante) porterà la sua decisione dal Presidente della Repubblica, che la renderà effettiva attraverso un proprio decreto.

Un iter che per Cesare Mirabelli, presidente emerito della corte Costituzionale, potrebbe diventare “un atto politico“. “Il Consiglio dei ministri nomina su proposta del Presidente del Consiglio i sottosegretari e si considera che possa esistere anche un potere di revoca. Ciò non vale per i ministri, che sono nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio. Questo è il punto di vista formale della revoca, il resto diventa un atto politico”, dice l’ex presidente della Consulta all’agenzia Andkronos. “La richiesta è un atto formale – spiega Mirabelli – perché la responsabilità politica è del governo. I sottosegretari non hanno attribuzioni proprie ma gli vengono delegate dal capo del dicastero. Mentre la revoca delle deleghe fa mantenere al sottosegretario il suo status, la revoca dell’incarico lo elimina dalla compagine governativa”.

Se Siri non si dimette, dunque, al questione finisce sul tavolo del prossimo Cdm. “La proposta di revoca – continua ancora Mirabelli – deve essere comunque messa ai voti, l’iniziativa è sua e suo  è il potere. Probabilmente si tratta di un atto che serve a stimolare le dimissioni del sottosegretario Siri ma qualora le dimissioni non ci fossero e la proposta venisse mantenuta, il Consiglio dei ministri delibererà nel suo ufficio”. Ciò vuol dire che la proposta di Conte sarà sottoposta ai componenti del Cdm, che è un organo collegiale dove vale normalmente la regola della maggioranza. “Il Consiglio dei ministri si esprime pressoché all’unanimità e se non ci fosse unanimità, a quel punto potrebbe esserci un voto a maggioranza del Consiglio”, continua Mirabelli. Un passaggio che potrebbe spaccare il governo. Ed è per questo motivo che ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, ha confessato: “Noi speriamo che non si voti in cdm“. Se si arrivasse al voto, comunque, in Cdm il Movimento 5 stelle ha la maggioranza, come ha ricordato Luigi Di Maio: passerebbe quindi la linea di Conte. Se invece il presidente del Consiglio “non avesse l’appoggio quantomeno maggioritario del governo e la sua proposta venisse bocciata – ragiona Mirabelli – in quel caso, forse dovrebbe riflettere se ha ancora la capacità di mantenere la situazione perché difficilmente sarebbe in grado di esprimere quell’unità di indirizzo che gli è richiesta. Ma – puntualizza – questa è solo un’ipotesi“.

Per Massimo Luciani, docente di diritto costituzionale all’Università La Sapienza, “non è espressamente prevista una deliberazione del Consiglio dei ministri. Oltretutto, la legge si occupa solo del percorso di andata, non di quello di ritorno”. Per il professore, intervistato dal Corriere della Sera, “il presidente, che dirige e non determina la politica del governo, dovrà probabilmente prendere atto dell’ orientamento del Consiglio dei ministri”. Ma la vicenda finirà poi al Quirinale. “Non sembra dubbio che alla proposta del presidente del Consiglio debba seguire un decreto del capo dello Stato“. Ma cosa accade se il premier invia a Mattarella la proposta di revoca di Siri con il parere contrario di alcuni ministri? “I poteri del presidente della Repubblica – dice Luciani –  quando è prevista una sua firma, non sono mai formali. Toccherà dunque al capo dello Stato trarre le conclusioni”. In realtà alcuni precedenti confermano che – per la procedura – il decreto di revoca del sottosegretario arriverà alla presidenza della Repubblica alla fine di un percorso tutto interno a palazzo Chigi, ma solo per un passaggio formale.

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