Ricordo un episodio della saga di Fantozzi nel quale il ragioniere cercava di profittare di una momentanea separazione tra la signorina Silvani e Calboni, reo di averla cornificata. Le sue avances erano vanificate dai sospiri di rimpianto che ella emanava verso il suo ex. Appena Calboni si ripresenta con la bottiglia di spumante, i due si chiudono in camera riprendendo ad amoreggiare e chiudendo fuori Fantozzi, a tutti gli effetti un terzo incomodo dentro una coppia che in realtà non si era mai separata. La signorina Silvani è Articolo Uno, Calboni è il Pd. Fantozzi, ovviamente, l’elettore sincero di sinistra.

Per commentare il prevedibile epilogo della vicenda Articolo Uno (fu Liberi e Uguali), non serve scomodare tronfie allocuzioni quali “l’esaurimento della spinta propulsiva”, trattandosi in questo caso di un timido affacciarsi oltre il giardino di casa, oltrepassato il quale i venti freddi dei sondaggi hanno consigliato di fare rientro. Dopo il naufragio di LeU, coerenza avrebbe imposto una corsa solitaria che tenesse fede al patto originario con gli elettori. Non perché il federarsi a un partito più grande sia in sé un errore, quanto perché stiamo parlando del Pd, la casa dalla quale pochi mesi fa i fondatori di Articolo Uno vennero cacciati. Un partito ben lontano dall’aver eradicato il renzismo che ancora ne innerva la struttura: basti osservarne la segreteria, presidiata da una robusta guarnigione renziana. Un Pd che non ha minimamente rinnegato il calpestio dei diritti dei lavoratori, guidato ora da un segretario che ha inaugurato il suo mandato addossando ogni nequizia del presente alla sconfitta di quel referendum che intendeva sabotare l’impalcatura della Carta costituzionale, in preda alle pulsioni padronali del gruppo della Leopolda.

L’idea di voler costituire una “sinistra del Pd” è quantomeno surreale. Non ci sono riusciti prima, e non sarà possibile ora con operazioni protesiche dall’esterno, in quanto al Nazareno da tempo non c’è più un partito di sinistra. La mutazione genetica avvenuta a suon di Leopolde è stato un processo irreversibile. E dire che Articolo Uno ottenne inizialmente un riconoscimento, seppur non a due cifre, da parte di quel popolo smarrito nel bosco al quale Pier Luigi Bersani chiedeva un contributo per edificare un gruppo paritario e autonomo. Questi elettori hanno, strada facendo, assistito alla creazione di un esercito che arruolava generali, lasciando alle truppe il compito di fare proseliti verso un progetto che necessitava di voti e manovalanza.

Gli elettori autenticamente di sinistra hanno iniziato a prendere le distanze dal nuovo partito man mano che gli intenti dei vertici si palesavano. Un gruppo dirigente intrappolato in una ritualità di partito sempre più priva di contenuti e sempre più impegnato in una infinita serie di convocazioni, autoconvocazioni e scissioni, incapace di contenere le pulsioni aggregative votate al ricongiungimento alla casa madre, mascherate malamente dietro la narrazione epica dei “barbari alle porte”, utile a giustificare un cinico desiderio di ritorno a casa, al sicuro dai morsi elettorali.

Sono pochi i simpatizzanti rimasti disposti a montare i gazebo col marchio Pd-Calenda nelle medesime piazze nelle quali esordirono con le bandiere rosse fiammanti con scritto “mai con questo Pd”. Il drastico calo di consensi che Articolo Uno ha pagato nasce dal sospetto dei militanti di aver a che fare con un gruppo dirigente in cerca di collocazione, scontento delle pene che il renzismo gli fece passare, ma intimorito dall’avventura di una corsa autonoma. Qualche strapuntino salterà fuori, alle Europee o alle Regionali. Sarà la montagna che partorisce il topolino. Un topolino nutrito col formaggio messo dentro al sacchetto preparato per la grande fuga dell’adolescente, esaurito il quale il figliol prodigo sceglie di tornare a casa rimandando l’inizio della sua vita autonoma. Spiace dirlo ma stavolta la palma della coerenza va a Renzi, che li attende su quella soglia dalla quale li ha allontanati per riaccompagnarli nel sottoscala. Era meglio il bosco.

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