Il penoso quanto inopportuno esercizio di benaltrismo (“Razzismo? Ma parliamo di poveri e di Tav…”), esibito da Beppe Grillo dopo la marcia dei 200mila a Milano sabato scorso, evidenzia ancora una volta, se ce n’era bisogno, quale sia la personalità vera del padre spirituale dei pentastellati; il movimento che annunciava la catarsi disintermediata della nostra asfittica democrazia e l’entrata nel regno di Gaia.

Se gratti il comico che ha costruito una carriera sulla versione lamentosa del mugugno, quello che salta fuori è un borghese piccolo piccolo, che coltiva nella sua ascesa sociale (dal quartiere semi-periferico di San Fruttuoso alle ville vip di Sant’Ilario) pulsioni che vanno ben oltre la diade Legge&Ordine: xenofobe, omofobe, maschiliste e ovviamente razziste.

Un tipico esempio della neo-borghesia possessiva intrinsecamente anarcoide nel perseguimento del proprio particulare, a partire dalla vecchia pretesa dei pagamenti in nero attribuitagli da Silvio Berlusconi, esteticamente cultrice del lusso esibizionistico insieme a Flavio Briatore nel resort di Malindi, solidale per affinità elettive con i titolari di conti in Svizzera, accumulati canticchiando “senza fine”. Potrebbe essere il Dna dell’elettore-tipo di Matteo Salvini. Condizione che spiega le difficoltà del comico fattosi messia nel dichiarare una qualche distanza politico/programmatica dall’ingombrante partner nel governo gialloverde.

Lo stesso vincolo psicologico che impiccia tanto il vicepremier Luigi Di Maio, incapace di tenere a bada lo strabordare della Lega, come il suo dioscuro Alessandro Di Battista; richiamato dalle foreste del Chiapas e dalle rimembranze romantiche sull’asse Simon BolivarChe Guevara per dare un po’ di sprint sbarazzino alla comunicazione del Movimento: la reciproca matrice destrorsa, come evidenziato dalle rispettive disavventure familiari.

Si dice: le colpe dei padri non ricadono sui figli. Certamente. Qui si osserva soltanto che i comportamenti paterni sono un sintomo importante degli ambienti in cui i dioscuri M5S sono cresciuti e si sono formati: il mondo asfittico del familismo amorale, che non riconosce né regole e né diritto fuori del legame di sangue, nel culto rozzo e primordiale della prepotenza elevata a ideologia vitalistica nel “menefreghismo” mussoliniano.

Sicché è pensar male ritenere che promuovere la giustizia fai-da-te dei padroncini pistoleri o l’accanimento dimostrativo nei confronti di poveracci dalla pelle un po’ più scura della nostra tocchi corde sensibili nei cuori dei ragazzini cresciuti in un milieu di follower almirantiani? Un irresistibile richiamo della foresta, che li disarma nella loro ricerca di un’autonomia programmatica per evitare l’ormai inevitabile inglobamento.

In fondo la leadership pentastellare è stata selezionata sulla base della sintonia con la mentalità dei primi fondatori, anche se il tipico mimetismo camaleontico di appartenenti a un ceto interstiziale (sempre sotto minaccia di scivolamento nell’odiato proletariato) portava a teorizzare l’ambiguo “né di destra, né di sinistra”. L’equivoco per cui il M5S, nella sua breve stagione rampante, ha raccolto i consensi più variegati. E ha diffuso nei militanti una sorta di innamoramento mistico, dai forti tratti religiosi; per cui l’appartenenza garantiva salvezza. Al tempo stesso, l’esecrazione della critica e del dubbio considerati blasfemia. Non a caso molti dei primi seguaci provenivano da un analogo rapporto fideistico e superstizioso nei confronti di Antonio Di Pietro e la sua Italia dei Valori.

Non riesco a immaginare quali strazi mentali affliggano tale popolo credente davanti all’inarrestabile sbriciolamento della cattedrale di certezze edificata grazie al profetismo di Grillo. Che per rispetto dei suoi smarriti seguaci dovrebbe almeno astenersi dal proferire eresie trucide; del tipo antitesi tra discriminazione razziale e povertà.

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