E alla fine è arrivata. Dopo 12 minuti di applausi, la standing ovation. E anche il parterre abbottonato del Teatro alla Scala si è alzato in piedi. L’hanno avuta pure la Bertè e Ultimo sul palco di Sanremo e non si omaggia una star come Maurizio Pollini, uno dei sommi interpreti di Chopin. Esecuzione sublime, le note volano e avvolgono in un abbraccio. Il maestro ha concesso due bis, poi un inchino rivolto al pubblico e cala il sipario.

Ho fatto la mia standing ovation dal palco, terza fila, terzo posto, quello che guarda il bellissimo damascato color rubino. Per vedere la mani virtuosissime del maestro che corrono sulla tastiera o rischio il torcicollo o faccio standing per tutta la durata del recital. Non potevo proprio perdermelo: biglietti sold out da giorni. Penso di affidarmi alla sorte dei bagarini fuori dal teatro, invece alla fine in biglietteria mi offrono un posto anche con lo sconto del last minute del 27%. Un affare, sono dentro. Chiedo al più fortunato della prima fila del palco l’ordine del repertorio. Mi fulmina con lo sguardo: “Prima i i notturni di Chopin e poi passa al preludio di Debussy”. Noto che il mio vicino di palco ha una straordinaria somiglianza con Fedele Confalonieri, il presidente di Mediaset. A fine concerto oso: “Ma lei per caso è…”. Seconda fulminata: “Non ho certo i suoi soldi”.

Pollini, 77 anni, suona da quando ne ha dieci, con la stessa grazia e inventiva da stupire sempre il pubblico. Ho ancora negli occhi “Peter Pan il Musical Forever” delle meraviglie andato in scena al Teatro Augusteo, con le musiche di Edoardo Bennato, una scenografia fantasmagorica, effetti speciali a gogò, bambini volanti e coccodrilli giganti in platea. Per ricordarci che basta Trilly ( sì, io credo alle fate!) per sollevarci da un mondo che non ci piace e trovarci immersi in un’atmosfera incantata. Il viaggio pieno di sogni verso “l’isola che non c’è” sembra un riferimento sotto traccia all’odissea in mare degli immigrati. In agguato i pirati cattivi. La regia di Maurizio Colombi ha garantito già mille repliche di tourneè.

Mentre scrivo arriva la notizia della morte di Karl Lagerfeld. Un mostro di creatività, non simpatico, soprannominato the Kaiser che, per amore, si dice, perse 40 chili in 13 mesi. Di madre tedesca e di padre di nobile casato svizzero (scrivono, anche se non credo che esistano blasoni svizzeri). Sosteneva di essere nato nel ’38, per poi parlare del ’35. Un programma televisivo tedesco, intervistando un suo compagno di scuola, conferma il ’33 come anno corretto. Quel che è certo è che a 14 anni va a Parigi a studiare arte e disegno, il ragazzo ha già talento da vendere. Diventa assistente di Pierre Balmain, all’epoca il top dello chic parigino. Ma il suo nome sarà sempre associato a Chanel e da Coco eredita anche il gusto della battuta tagliente. Le modelle? “Stupide”. Sull’uso delle pellicce “Andare dal macellaio è peggio, no? È come essere sulla scena di un omicidio”. Senso estetico esasperato: “Odio i brutti e i grassi”. Ma il suo repertorio conta anche “karlismi” di più spessore.  “Non puoi vivere 24 ore al giorno sotto i riflettori e rimanere creativi. Per me la solitudine è una vittoria”. A chi gli chiedeva come mai non avessimo ancora letto un libro sulla sua vita, rispondeva: “Non ho tempo per la mia autobiografia. La sto vivendo”.

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