Il decreto Sicurezza, che ha imposto una stretta ai permessi di soggiorno per i migranti, è irretroattivo. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione. Con la sentenza sentenza n. 4890 i giudici di piazza Cavour hanno affrontato per la prima volta la questione e hanno stabilito che le domande già presentate dovranno essere esaminate con la vecchia normativa sui permessi per motivi umanitari. Se vi sono i presupposti, il permesso rilasciato avrà la dicitura ‘casi speciali’, come previsto dal dl, e durata di due anni, e alla scadenza opererà il nuovo regime.

In base a quanto precisato dalla Suprema Corte, quindi, le nuove e più restrittive regole volute dal ministro dell’Interno Matteo Salvini sui permessi di soggiorno non si applicano a quei migranti che prima del 5 ottobre 2018 (giorno di entrata in vigore della nuova normativa) abbiano fatto domanda di protezione. In questo senso, la portata del provvedimento, che ha circoscritto i permessi al rischio individuale di persecuzione o tortura, alla necessità di cure mediche e ad eccezionali calamità, viene in qualche modo ridimensionata, anche se alla scadenza dei permessi già in vigore si applicheranno le nuove regole.

La Corte ha esaminato il ricorso di un cittadino della Guinea la cui domanda di protezione era stata respinta dal tribunale di Napoli. Si è posto per la Cassazione il problema di quale normativa applicare, visto che la nuova legge, al momento dell’udienza era già entrata in vigore. Per arrivare alla decisione, la Cassazione ha preso atto che il decreto sicurezza (n.113 del 2018) ha previsto espressamente due commi che disciplinano i permessi già rilasciati (che rimangono in vigore, anche se alla scadenza saranno applicate le nuove disposizioni) e quelli non ancora rilasciati, ma per i quali la commissione territoriale ha già accertato i presupposti per il rilascio del permesso umanitario (in questo caso, visto che tale permesso non è più previsto, al termine dell’iter sarà rilasciato il permesso per ‘casi specialì). Rimangono dunque fuori i casi ancora da decidere o per i quali c’è stata una prima decisione negativa per il migrante.

La prima sezione civile della Cassazione ha quindi applicato il principio giuridico che “la legge non dispone che per l’avvenire” anche a questo caso, per non creare “disparità ingiustificate e irragionevoli di trattamento dovute esclusivamente ad un fattore del tutto estrinseco e accidentale quale la durata del procedimento di accertamento”. Il cittadino straniero, sulla base delle norme modificate dal decreto del 2018 – scrive la Corte – “ha diritto a un titolo di soggiorno fondato su ‘seri motivi umanitari‘ desumibili dal quadro degli obblighi costituzionali ed internazionali assunti dallo Stato, che sorge contestualmente al verificarsi delle condizioni di vulnerabilità, delle quali ha chiesto l’accertamento con la domanda. La domanda, di conseguenza, cristallizza il paradigma legale sulla base del quale deve essere scrutinato”.

Precisa inoltre, che “il potere-dovere delle commissioni territoriali di accertare le ragioni che possano residuare dal diniego delle cosiddetti protezioni maggiori”, come lo status di rifugiato, resta, “ancorché rimodulato alla luce della significativa compressione delle ragioni umanitarie realizzata dal decreto legge 113 del 2018”. La Corte ha anche rigettato il ricorso del migrante, che dunque, anche con le vecchie regole non riceverà la protezione umanitaria.

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