Mi è capitato più volte di incontrare Dio nel mio studio. Il Dio riportato nelle parole degli analizzati sul lettino. Ho sempre trovato una differenza sostanziale nella capacità di assorbire i colpi della vita da parte degli appartenenti ai due estremi della linea del credo: gli atei radicali, coloro i quali hanno sempre fatto a meno di un Dio, e i fedeli convinti della sua presenza.

Gli appartenenti al primo gruppo sono naturalmente dotati di una fede incrollabile nell’uomo, nelle sue virtù razionali, e al contempo armati di un’immensa riserva di cinismo, lunga quanto la vita intera, devoti all’idea che l’uomo contenga in sé la capacità di sopportare ogni fardello che il tempo gli riservi, senza dover chiedere aiuto o sostegno a qualcosa che non sia razionalmente spiegabile. Molti di essi hanno subito colpi tremendi dalla sorte. Nel loro sentire, ciò fa parte dell’infinito gioco delle possibilità al quale si è esposti quando si viene al mondo. “La mia vita ha perso ogni prospettiva”, mi disse tempo fa un uomo che vide decimata la sua famiglia in un incidente stradale. Sono soggetti alle sferzate della depressione, alle cadute del tono dell’umore, all’angoscia che riconoscono come elemento umano essenziale.

Assumono lo psicofarmaco senza credere alla risoluzione chimica del loro tormento, ma lo sanno usare come stampella. Desiderano a volte farla finita, senza troppe lamentele, ma con lucida presa d’atto che la benzina della loro anima è terminata. L’impossibile appello a un’entità trascendente li priva di qualsiasi giaculatoria. Sanno di non scontare il fio di alcun peccato, perché al peccato non credono. Sono i protagonisti assoluti della loro vita, nel bene e nel male. Se compiono atti estremi, come ad esempio il suicidio, difficilmente lasciano testamenti accusatori contro questo o quello. Sanno di essere portatori di un rischio esistenziale congenito, e se ne assumono ogni responsabilità.

All’estremo opposto stanno invece i credenti convinti. La loro fede incrollabile è il sinthomo che permette loro di sopportare vite durissime, a testa alta, perché certi di essere solo di passaggio, destinati a rendere conto a un’alterità tutta da guadagnare. Per costoro il senso del peccato frena considerevolmente gli intenti suicidari. Ho accolto in studio persone alle quali restavano pochi mesi di vita, pacificate perché certe di ricongiungersi ai propri cari.

Ho parlato con uomini che hanno perso in poco tempo lavoro e famiglia, senza mai perdere la fede in un Dio nel cui progetto si sentono inglobati. A Dio piacendo si vive e si muore, ci si ammala, ci si innamora, certi che in un aldilà le trame che li hanno guidati saranno rischiarate. Più critica invece la condizione nella quale la fede religiosa addobba la stanza dell’analista, quando cioè queste due tipologie di pazienti trovano Dio già installato nello studio del loro terapeuta. Lo psicoanalista, nella sua funzione, non può indossare abiti confessionali. Questo non intacca minimamente la fede personale, i convincimenti religiosi o, più banalmente, l’appartenenza a una chiesa come può essere quella cattolica o protestante.

Tanti miei validi colleghi sono credenti. Esiste un limite tra umano e professionale – che solca e sigilla gli elementi controtransferali – che deve continuamente essere messo alla prova e verificato, pena uno sconfinamento che proietta una luce diversa su quella zona umbratile che l’analista occupa. Se colorata di afflato religioso, perde quell’opacità che permette al dispositivo di funzionare. Ho sentito colleghi dichiarare di aver riscoperto un senso religioso nel momento in cui sono diventati genitori, scorgendo il dono di Dio nella capacità di procreare. Non posso non pensare alla sorte di quelle pazienti che figli non ne hanno potuti avere. Mi chiedo come possano serenamente sedersi sul lettino di chi considera la possibilità di avere un figlio un regalo divino.

Per questioni personali e professionali, questo Dio appeso in studio non mi convince. Quando mia figlia è nata non mi sono sentito né scelto, né unto dal divino, né ho percepito il manifestarsi di una qualche misericordia personale. Troppe storie storte, troppe fatalità, troppi desideri di paternità o maternità divenuti anticamera del buio ho visto in questi lunghi anni, per non trovare la capacità logica e razionale di ficcarmi nel gran calderone statistico di quelli che, semplicemente, hanno avuto fortuna.

Ho toccato con mano la sofferenza pura e indicibile del melanconico. Il desiderio di fine vita dello psicotico che perde progressivamente la forza di lottare contro le visioni notturne. Ho aperto la porta alla madre che ha perso il figlio, al figlio che ha perso l’intera famiglia. Ed è proprio osservando le loro vite che ho imparato che è a loro che si deve chiedere se Dio esiste.

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