di Eugenio D’Auria*

Le convulse giornate che hanno preceduto l’avvio della Conferenza di Palermo hanno evidenziato le difficoltà del nostro governo nello sviluppo di un’iniziativa ritenuta indispensabile per ribadire il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo. La lunga fase di preparazione non ha peraltro evitato il rischio di un clamoroso fallimento proprio all’avvio della Conferenza in considerazione della posizione del generale Haftar, restìo a sedere allo stesso tavolo con rappresentanti di governi e di movimenti ritenuti a lui ostili. Qatar e Turchia, sostenitori dei movimenti che si richiamano ai gruppi vicini ai Fratelli Musulmani, sono infatti considerati da Haftar oppositori irriducibili, non utili ai fini del raggiungimento di soluzioni di compromesso per i futuri assetti della Libia.

Se Haftar è riuscito a tenere il punto, non sedendo al tavolo dei negoziati, vi è da considerare peraltro che i membri della sua delegazione hanno preso parte ai lavori, riuscendo addirittura a porre delle condizioni che hanno indotto la Turchia ad abbandonare la Conferenza prima della chiusura ufficiale. In mancanza di una dichiarazione finale sottoscritta dai partecipanti è difficile valutare pienamente i risultati raggiunti a Palermo. Alcuni elementi possono comunque essere evidenziati per meglio comprendere le dinamiche che accompagneranno l’evoluzione delle vicende libiche nei prossimi mesi.

Di sicuro è stato valorizzato l’operato del Rappresentante delle Nazioni Unite Ghassan Salamè, che ha potuto inquadrare la Conferenza quale tappa significativa nel percorso di progressiva stabilizzazione della Libia. Un percorso tracciato nei mesi scorsi e faticosamente sviluppato, pur in presenza di contrasti fra le diverse fazioni libiche e fra i Paesi interessati a evitare il permanere di un buco nero in una regione politicamente sensibile e di eccezionale valore in termini economici.

Nei primi mesi del 2019 vi sarà così un ulteriore appuntamento, verosimilmente non ancora conclusivo ai fini della consultazione elettorale, unico elemento che potrà permettere di considerare terminata la transizione post-Gheddafi. A dimostrazione ulteriore che la ricostruzione delle istituzioni nei Paesi colpiti da fenomeni di disgregazione è un processo complesso, insensibile a valutazioni e pressioni esterne, per quanto pesanti: il riferimento è in particolare rivolto al tentativo francese di imprimere un’accelerazione al processo di stabilizzazione attraverso una tornata elettorale per la quale i libici non erano preparati.

Di qui scaturisce anche l’apprezzamento per l’operato dell’Italia, che ha saputo interpretare le aspettative delle diverse fazioni libiche, evitando forzature e pressioni suscettibili di porre a rischio le fragili e limitate intese possibili. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi hanno saputo ridimensionare le aspettative della vigilia, eccessivamente gonfiate per pur comprensibili esigenze di visibilità. La stretta di mano a tre Al Serraj-Conte-Haftar è di sicuro un elemento di immagine mirato a bilanciare l’assenza di un documento condiviso, ma rappresenta pur sempre un simbolo: della volontà di continuare nel percorso negoziale intrapreso e di superare insieme le immancabili difficoltà future.

Sotto questo profilo quindi anche Roma può dichiararsi soddisfatta di quanto realizzato a Palermo, anche perché non può essere dimenticato che il presidente Conte interpreta un programma di governo che nel “contratto” attribuisce alla politica estera poco più di una pagina di generiche affermazioni. I prossimi mesi saranno, ancora una volta, decisivi per l’avvio a soluzione della crisi libica: da un lato i rappresentanti dei gruppi presenti a Palermo avranno la responsabilità di continuare lungo il percorso di progressiva eliminazione dei numerosi contenziosi ancora presenti. Dall’altro, i Paesi interessati alla stabilizzazione dell’area dovranno evitare di privilegiare miopi interessi di limitata portata rispetto a iniziative ispirate ad ampie visioni.

La ricostruzione delle istituzioni libiche, premessa di un pieno recupero del Paese, non può che passare per un percorso elettorale che consenta di rinnovare l’attuale parlamento e, successivamente, di portare all’elezione di un presidente. Per poter procedere in tale direzione è indispensabile che venga sciolto il nodo legato alla presenza delle milizie, sempre più padrone della sicurezza dei cittadini, in particolare a Tripoli. Il coacervo di interessi creatosi in questi anni è particolarmente intricato e appare quindi difficile neutralizzarlo in poco tempo in mancanza di un preciso programma di disarmo dei gruppi armati e di graduale ripresa dell’autorità centrale rispetto ai gruppi tribali e ai clan.

Si tratta di processi complessi e articolati, che richiedono unità di intenti e personale specializzato. Il grado di interdipendenza è inoltre molto elevato, con il rischio che ostacoli o ritardi in un settore abbiano effetti a catena su altri comparti. Come sottolineato in precedenti occasioni, l’Italia può, su questo terreno, vantare competenze avanzate che, accompagnate da conoscenze consolidate e approfondite degli ambienti libici, possono garantire risultati positivi. A condizione che i rilevanti interessi economici e quelli – ancora più rilevanti – geo-strategici siano circoscritti e limitati da un quadro di riferimento internazionale garantito pienamente dalle Nazioni Unite.

Il credito accordato dal presidente Conte all’operato di Salamè potrebbe, in un tale contesto, rappresentare un primo utile tassello per la prosecuzione dello sforzo italiano. A condizione che le debolezze delle nostre posizioni negoziali, mostrate spesso in passato, siano definitivamente accantonate e sostituite con un piano che rimetta al centro della nostra azione sul dossier libico le reali priorità dell’Italia: sicurezza energetica e immigrazione in primo luogo.

*Già ambasciatore in Arabia Saudita

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