Chi sono gli armeni? Pochi lo sanno. Eppure soprattutto tra il 1915 e il 1918, in Anatolia, il governo ottomano dei «Giovani Turchi» ne trucidò almeno un milione e mezzo. Sono ancor meno gli italiani consapevoli del fatto che una colonia armena ebbe un suo “villaggio” a Bari. Non lo sanno neppure molti baresi. Di certo, la loro persecuzione è stato il primo esempio in epoca moderna di “pulizia” etnico-religiosa, anche se le autorità turche di allora, come quelle di oggi, non hanno voluto riconoscerlo. Il genocidio nacque non solo dall’ideologia razzista del Partito progressista dei Giovani Turchi; scaturì anche dalle contrapposizioni tra i musulmani (ottomani e curdi) e la minoranza cristiana armena, nata appena trecento anni dopo la crocifissione di Gesù (tanto che è stata festeggiata nel 2001 e nel 2016 da due Papi).

Migliaia di armeni fuggirono. Molti (come oggi altri esuli) arrivarono in Italia via mare. Lo Stato italiano, nonostante la Grande Guerra in corso o appena finita, li accolse. La Puglia, per ragioni geografiche, fu uno dei primi approdi. Cosicché a Bari, nell’attuale via Amendola, quartiere San Pasquale, lungo un vecchio muro di tufo, si apre un varco. Sulle colonne si legge, a destra, in caratteri latini, la scritta «Nor Arax», ripresa a sinistra in caratteri armeni. Significa «Nuovo Araxes», fiume che scorre tra Armenia, Turchia e Iran. C’è anche la data: 1926. Si intravedono, tra la vegetazione, quattro delle sei costruzioni nelle quali trovarono ospitalità gli armeni «baresi». Ancora oggi alcune sono abitate da loro discendenti, ovviamente cittadini italiani.

I rari documenti sugli armeni di Bari sono conservati dall’Istituto pugliese per la Storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea. Sembra di rileggere le cronache dello sbarco degli albanesi a Bari, nel 1991. Alla fine del 2017 è uscito anche un piccolo libro – Nor Arax. Storia del villaggio armeno di Bari (LB editore), scritto da Emilia Ashkhen De Tommasi: è la nipote diretta di Diran, uno dei profughi, che in Puglia sposò Ashkhen. Da nonni, genitori e parenti, l’autrice ha appreso il drammatico racconto. Nel 1924 due navi approdarono nel porto barese: 120 armeni provenivano dai campi profughi di Atene e Salonicco, dove avevano trovato rifugio due anni prima, dopo essere fuggiti alle stragi di Smirne. La loro accoglienza era stata organizzata dal poeta armeno Hrand Nazariantz, esule a Bari dal 1913 perché condannato a morte dai turchi. A partire dal 1915 era riuscito a sensibilizzare il governo italiano, forse meno xenofobo di quello odierno. I fondi per realizzare il villaggio furono garantiti dall’Associazione nazionale degli interessi nel Mezzogiorno (Animi), fondata dal filantropo Umberto Zanotti Bianco, e dal Circolo filologico barese, diretto dal geografo Carlo Maranelli.

Nor Arax è stato un esempio di accoglienza, tollerato, fino alle leggi razziali del 1938, persino dal fascismo. Nel 1926 gli esuli ottennero sei padiglioni su un terreno acquistato dall’Animi in via Capurso, poi diventata via Amendola. Nel 1927 l’Acquedotto pugliese donò una fontana con l’acqua potabile. All’inaugurazione parteciparono autorità istituzionali ed ecclesiastiche. Quella gente, di fede cristiano-ortodossa, faceva capo alla Chiesa Russa, costruita nel rione Carrassi agli inizi del XX secolo con un contributo dello zar Nicola II, in omaggio a San Nicola. Dagli armeni i pugliesi impararono l’arte di tessere i tappeti, tanto che quelli prodotti a Bari furono acquistati da re Faruk, da Pio XI, dalla regina Elena e da diversi enti, come Banca d’Italia e Acquedotto. Nel primo Dopoguerra nacquero pure scuole di tessitura.

Oggi la storia dei profughi giunti a Bari è quasi ignota. Come è stato dimenticato che gli armeni in Italia avevano radici da decine di secoli: Nerone invitò il re Tiridate I a Roma nel 66 d.C. per incoronarlo nel Foro. A Bari gli armeni erano arrivati anche durante la riconquista bizantina, negli ultimi decenni del X secolo. Vi furono poi intensi rapporti culturali e commerciali con Venezia, Livorno e Roma. Attualmente in Italia sono poche migliaia e vivono soprattutto a Venezia, Padova, Milano e Roma. E a Bari? Pochissimi, anche se raccolti in una comunità.

Resta però la testimonianza di uno dei racconti di Zanotti Bianco, pubblicati nel volume Tra la perduta gente (1959). Descrive i drammi di alcuni profughi; per esempio, la storia di Santouth, ragazza armena venduta come schiava dai turchi a un vecchio arabo di Mosul, che le fece tatuare sul viso un marchio di proprietà. E ammira la loro laboriosità nel campo barese: «Donne e bimbe lavorano su grandi telai… Forse in questo silenzio si vive di cose morte che soverchiano il presente e si protendono feroci sull’avvenire». Un’affermazione, quest’ultima, che ricorda le condizioni in cui vivono i profughi dei giorni nostri. O, almeno, le ricorda a chi non ha paura di sapere, in questi anni di razzismo spacciato per buon senso.

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