Da quando quel nerd bilionario di Mark Zuckerberg (se pensavate che lo scandalo Cambridge Analytica avrebbe intaccato la sua ricchezza, resterete amareggiati: è il terzo più ricco al mondo) ha acquistato Instagram, l’applicazione creata da Kevin Systrom e Mike Krieger ha subito un’evoluzione straordinaria. Quello che era un pacifico ritrovo virtuale dove guardare le foto degli amici si è trasformato in una Fossa delle Marianne popolata da una manica di creature replicanti che amano autodefinirsi “ceo presso il proprio blog” (Marchionne scansate), “artista” (se Baudelaire fosse vivo scriverebbe I blogger del male) e “influencer” (sic).

L’utilizzo di Instagram come mezzo comunicativo e pubblicitario ha contribuito a rendere ancora più melmosa la palude (il paragone con il mare qui sarebbe troppo poetico) in cui galleggiano molti media tradizionali italiani. L’equazione è semplice. Se in passato gli stessi media erano fonte privilegiata di informazione e quindi foraggiati da forti investimenti pubblicitari, oggi, causa la crescente disintermediazione nella diffusione di contenuti, si ritrovano spesso e volentieri con il fango alle tonsille. Risultato: quella che 20 anni fa era una torta al cioccolato da dividere tra pochi, di questi tempi ha preso la forma di una ciambella stantia da tagliare in tante fettine, alcune delle quali vengono divorate da una serie di nuove piattaforme che danno lavoro a nuovi “professionisti”.

Sono le considerazioni con cui gli addetti ai lavori si confrontano ogni giorno: se prima un giovane adulto leggeva la cronaca su un’agenzia stampa, ora la apprende da YouReporter. Se prima guardava una serie tv, ora si incolla alla Instagram tv per seguire lo svezzamento di Leone Lucia Ferragni (doppio sic). Se prima andava in agenzia viaggi, oggi prenota le vacanze chiedendo consulto a “influencer” trasformatisi in agenti di viaggio. Se prima avesse chiesto di pernottare gratis in cambio di visibilità, qualcuno avrebbe chiamato un’ambulanza o una volante della polizia, oggi riceve contratti di sponsorship.

I tempi cambiano ed è giusto che sia così. Ma alcuni paletti devono restare, altrimenti è il caos. Deve essere ben chiara, ad esempio, la differenza tra la categoria “giornalista” e quella dell’“influencer/creatore di contenuti ecc”. Un “influencer/creatore di contenuti ecc” non iscritto all’albo professionale di categoria dovrebbe evitare di definirsi “giornalista” o “reporter” (beauty reporter è l’apoteosi assoluta). Ma taluni tra questi personaggi dovrebbero anche evitare di definirsi “blogger”: il vero blogger è colui che aggiorna periodicamente un diario online con informazioni di un qualche tipo (ecco ad esempio, in questo articolo che ho scritto per Vanity Fair, un vero blog di viaggio), non chi fa la foto al cappuccino di soia deca la pubblica sui social e tagga anche la mamma del barista sperando di avere il suddetto cappuccino gratis.

La questione è che tutti oggigiorno vogliono scrivere e comunicare. A questo proposito, un editore romano per cui ho lavorato mi disse una volta, con riferimento all’autore di un inedito infame: “Il fatto che sia morta tua zia non ti obbliga a scriverne un libro”. Purtroppo c’è ben poco da fare in merito. Se nessuno si sognerebbe di fare il medico o l’ingegnere senza una formazione e un titolo adeguati, sono in tantissimi quelli che si improvvisano corrispondenti dal fronte, ma l’unica guerra che combattono è quella ai congiuntivi.

C’è anche il rovescio della medaglia: i giornalisti che vorrebbero diventare influencer (nell’accezione corrente del termine, usando cioè i propri profili social per “sponsorizzare” un prodotto). Inutile (?) dire che un giornalista non può fare pubblicità; utile ricordare che egli comunica un fatto con un articolo, quindi il suo obiettivo non è vendere sé stesso (qui si potrebbe aprire una voragine di discussioni) ma la notizia. Un “influencer/creatore di contenuti ecc.” non ha invece alcuna deontologia da seguire – solo le regole del marketing e quelle della decenza, queste ultime spesso ignorate – e può tranquillamente vendere la sua immagine.

Sarà anche di questi aspetti, quanto mai attuali, di cui si parlerà l’8 e il 9 ottobre a Milano, durante gli Stati Generali dell’informazione turistica e agroalimentare organizzati dal Gist (Gruppo italiano stampa turistica) e Unaga con il patrocinio della Regione Lombardia. Ai tavoli di lavoro, appena chiusi, si parlerà di deontologia, pubblicità occulta, monitoraggio media e propensione al cambiamento della categoria (triplo sic carpiato), confrontando il mestiere giornalistico con le nuove professioni dell’informazione in un segmento – il giornalismo turistico – in cui il confine tra articolo e pubblicità è a volte labile.

Prenderanno parte agli incontri l’Ordine dei giornalisti, la Fnsi e l’Agcom. Alla fine si stilerà un Manifesto che dovrebbe contribuire a differenziare il lavoro giornalistico da quello non giornalistico, fornendo spunti utili agli uffici stampa di settore e, chissà, anche agli stessi editori, sempre più fascinati dagli esponenti dell’influencer marketing. Si tratta di un’iniziativa che dovrebbe essere ampliata a tutte le altre specializzazioni giornalistiche, per evitare il rischio che Amazon e Facebook diventino presto (o lo sono già?) gli unici fabbricatori di notizie in circolazione.

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