Giugno è tradizionalmente considerato il mese dell’orgoglio arcobaleno, il PrideMonth. In Italia, tuttavia, i pride non si limitano a questo periodo dell’anno e vanno da maggio a settembre. Ancora molti sono gli eventi in programma, a cominciare dalla Queeresima di Cagliari, per finire con il Palermo Pride che si terrà in coda all’estate, nel capoluogo siciliano. Ma a un mese di manifestazioni che hanno portato in piazza centinaia di migliaia di persone, possiamo provare a tracciare un bilancio.

Il primo elemento che emerge è quello di manifestazioni più partecipate degli anni scorsi. Chi era lì fisicamente, da Roma a Milano, passando per le città più piccole, ha potuto notare una significativa differenza in termini quantitativi. Segno che la piazza reagisce all’onda giallo-verde che sta attraversando il nostro paese e che rischia di divenire una marea nera dove fascismo, omofobia e razzismo assurgono ad elementi qualificanti del nuovo corso. Nuovo corso i cui slogan abusano del concetto di “cambiamento” dietro il quale tentano di nascondere la solita trita e grigia reazione contro tutto ciò che viene bollato come diverso dalla norma e che, per continuare ad esistere, ha bisogno di isolare un nemico e costruire un racconto criminalizzante su di esso.

A questo giro, l’“uomo nero” con cui spaventare i bambini e certe menti non proprio illuminate è la persona migrante, ridotta alla categoria di clandestino. Ed è sullo scardinamento di questa narrazione tossica che si sono concentrate alcune manifestazioni, come i pride di Catania e Torino e quello più recente di Perugia, che ha popolato le vie del centro solo sabato scorso e che ha portato sul palco la questione della cittadinanza non come mero accidente etnico, ma come capacità di costruire relazioni nell’ottica del bene comune. Il passaggio da “razza” – che fa tanta presa in certi ambienti, anche filogovernativi, anche se ancora non osa pronunciare il suo nome – a quello di comunità di diversi e diverse cooperanti. Un primo significato che possiamo dare ai pride occorsi è questo.

Il carattere antisalviniano non è però il fine, ma semplice conseguenza della natura stessa della manifestazione e del suo portato ideologico: se fai della liberazione dei corpi la tua bandiera, se ti batti per la fine dello stigma del desiderio (fisico e non) e delle identità fuori norma, se usi la ribellione come strumento politico rispetto a una normalizzazione che non tiene conto della felicità dell’individuo, ma solo il suo assoggettamento, se l’intersezionalità delle lotte è il tuo faro, ti collochi naturalmente agli antipodi di una politica che lascia in mezzo al mare “gli altri”, producendo in primis una separazione fisica tra ciò che ha diritto ad esistere – anche nel senso di rimanere in vita – e chi è scarto. Dalla norma, appunto.

Il pride, piaccia o meno, è forse l’unica grande manifestazione rimasta che scende in piazza e grida a voce chiara il bisogno di democrazia di larghe fasce sociali. Quella stessa che, per quanto riguarda il caso italiano, ha nell’articolo 3 della nostra Costituzione uno dei suoi pilastri fondamentali: l’uguaglianza giuridica di fronte alla legge. Certo, è anche festa, è divertimento, è denuncia del “mascheramento sociale” attraverso quel disvelarsi che i più semplici, poverini, riducono al rango di carnevalata in quello che possiamo definire come atto linguistico pavloviano da tirare fuori in primavera, visto che le mezze stagioni sono definitivamente tramontate.

Il pride, piaccia o meno, è una cartina al tornasole – e di questi tempi non sono poi così tante – di quella che deve essere la risposta agli anni bui che vogliono costruire per noi i populismi di varia natura e i loro supporter politici. E l’antidoto sta nell’inclusione, nell’ascolto dell’altro/a da sé, nel marciare insieme, persone Lgbt e non: infatti, sono molte e benvenute le persone eterosessuali che partecipano al mese dell’orgoglio, semplicemente perché hanno capito che non solo è doveroso, ma è anche bello essere lì. Essere insieme e gridare a chi vuole costruire steccati – e magari ricoprirli col filo spinato ad alta tensione ultraidentitaria, domani – che non ci avranno mai. E che, sì, la guerra per una società migliore è lungi dall’essere vinta, ma che non ci arrenderemo al grigiore di chi vuole anteporre una categoria ad altre e alle sue sfumature, gialle, verdi o nere che siano.

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