Per fortuna, sono a Istanbul solo di passaggio, e per altri motivi. Perché oggi è giorno di elezioni, qui. E niente è più difficile che scrivere di Turchia. Un Paese non solo complesso: ma su cui molti, in Europa, hanno un’opinione netta e precisa. Soprattutto quelli che ti dicono: è inutile, gli arabi sono incompatibili con la democrazia. E ti tocca stare lì a spiegargli che i turchi, intanto, non sono arabi.

Naturalmente, la diffidenza dell’Europa ha le sue ragioni. Con questo voto, entra infine in vigore la riforma della costituzione approvata con il referendum di un anno fa. Il nuovo parlamento, e il nuovo presidente, perché il voto di oggi è per entrambi, avranno poteri diversi: meno poteri il parlamento, e più poteri il presidente. Che diventa ora il capo dell’esecutivo. E il contesto delle elezioni è quello descritto dai rapporti di Amnesty International. Lo stato di emergenza introdotto dopo il tentato colpo di stato del 2016 non è ancora stato abrogato, e delle migliaia di arrestati, 50mila sono ancora in carcere in attesa di processo. Tra cui molti giornalisti, avvocati, attivisti. Soprattutto, è ancora in carcere anche il curdo Selahattin Demirtas, che con la sua proposta di una democrazia decentrata e partecipata, aveva unito l’opposizione laica a Erdogan. Ed era stato il protagonista delle ultime elezioni.

Ed è ancora in carcere anche lo stesso direttore di Amnesty International. Eppure, sono qui che leggo il libro di uno dei più noti, e tenaci, critici di Erdogan, Deniz Yücel, il corrispondente da Ankara di Die Welt che per quello che ha scritto, è stato in carcere un anno, e ancora rischia altri 18 anni di carcere: e per quanto suoni strano, è proprio leggendo libri come questo che si recupera fiducia. Perché si intitola Ogni luogo è Taksim. E ricostruisce i giorni del movimento di Gezi Park, che nel 2013, contestò il progetto di riqualificazione di piazza Taksim, la piazza principale di Istanbul, contestando in realtà il progetto di Turchia di Erdogan. E che però, appunto, non fu l’iniziativa di una città sola, magari più avanzata delle altre: coinvolse tutto il Paese.

E quindi questo libro, che è un ritratto dei dubbi e dei timori dei turchi, di turchi non solo di ogni città, ma di ogni età, di ogni professione, di ogni opinione, laici e islamisti, è allo stesso tempo un ritratto di tutta la forza della Turchia – di questo Paese straordinariamente plurale in cui, detto per inciso, in questi anni di crescita economica la classe media è raddoppiata, dal 20 al 40 percento: uno dei rari casi di riduzione delle disuguaglianze. E in cui, in questi anni di guerra alle porte, hanno trovato rifugio 3,5 milioni di siriani. Con il sostegno dell’Unione Europea, certo, che per evitare che sbarcassero in Grecia, ha versato 6 miliardi di euro.

Ma dal 2011, la Turchia per i siriani ha speso 26 miliardi di euro. E non ospita solo siriani. E’ il Paese con il più alto numero di profughi al mondo. La Turchia ha una società civile solida. Non è un Paese di sudditi e sultani. Per l’Europa, la diagnosi è semplice: il problema della Turchia è Erdogan. Ma qui il problema, in realtà, è il momento storico. Perché la Turchia si sta misurando con il superamento del modello di Atatürk, e cioè con la ridefinizione del suo rapporto con l’Islam, che è stato a lungo costretto alla clandestinità – e infatti, quella che noi definiamo “islamizzazione della Turchia” è stata per molti musulmani, piuttosto, la sua democratizzazione: solo ora si sentono davvero parte della società. E più in generale, si sta misurando con il cambiamento dell’intero Medio Oriente, con la primavera araba. Perché per anni l’Akp di Erdogan, al potere dal 2002, è stato studiato nelle università come un esempio: per il rilancio dell’economia, per gli investimenti nel welfare, per l’apertura ai curdi. Per mille riforme che hanno ampliato, o concretizzato, i diritti dei cittadini. Da Paese che viveva di prestiti del Fondo Monetario, la Turchia è ora uno dei Paesi che finanzia il Fondo Monetario. La sua crisi, non a caso, è cominciata nel 2012: è cominciata quando è cominciata la guerra in Siria. Che ha inciso profondamente sulle nostre società: come poteva non incidere su un Paese con cui ha 911 chilometri di confine comune?

In questi anni in cui è cambiato tutto, per la Turchia l’unica cosa che non è cambiata è il no dell’Europa. Come ricorda Deniz Yücel, i giorni di Gezi Park sono stati anche i giorni dei 50 anni dal trattato di associazione tra la Turchia e quella che all’epoca era ancora la Cee. Era il 1963, e i Rolling Stones incidevano il loro primo disco. 50 anni in cui l’Europa non ha mai neppure detto esplicitamente no. Ha solo rinviato, rinviato. Rinviato. Rinviato con ogni scusa possibile. Ha solo umiliato. Perché il problema, è noto, è che la Turchia ha 80 milioni di abitanti, quanto la Germania. E un suo ingresso a Bruxelles stravolgerebbe equilibri già precari. Anche perché sono 80 milioni di musulmani. Mentre gli altri, tra mille difficoltà, mille errori, provano ad affrontare le sfide del loro tempo, noi, semplicemente, ci chiudiamo in noi stessi. Come se tutto questo fosse un mondo altro da noi. Ma quella che nel nostro immaginario è l’icona della Turchia musulmana, Sultanahmet, con la Moschea Blu, Santa Sofia, il palazzo di Topkapi, è sulla sponda europea di Istanbul, dice Deniz Yücel. Non su quella asiatica. Il ponte sul Bosforo non collega l’Oriente all’Occidente: ma l’Europa all’Europa. Di là dal ponte, non c’è l’Altro. C’è una parte della nostra storia. Del nostro tempo.

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