Le prove di forza si fanno soltanto quando si è sicuri di vincere. E Sergio Mattarella ha perso. Anche perché l’esito era già segnato: Matteo Salvini aveva deciso da tempo di tornare alle elezioni per rafforzare il controllo sul centrodestra, fagocitare quel che resta di Forza Italia e neutralizzare le opposizioni interne alla Lega di chi – come Roberto Maroni e Luca Zaia – contestano da sempre la scelta di trasformare un partito regionalista in un movimento sovranista e nazionalista.

Che Salvini non avesse il governo Conte come priorità era intuibile dal rifiuto netto a indicare Giancarlo Giorgetti come ministro dell’Economia, come auspicato da tutti gli investitori, dal Quirinale e perfino da molti dei Cinque Stelle che avrebbero preferito di gran lunga il pragmatico senatore leghista all’81enne, imprevedibile, Paolo Savona.

La prima matrice della crisi istituzionale che in queste ore scuote la democrazia italiana è dunque tutta politica. Tattica. Matteo Salvini è riuscito in un colpo solo a costruire un nuovo bipolarismo intorno alla sua figura e alla Lega (sovranisti contro europeisti), a mettere in crisi la leadership del suo concorrente Luigi Di Maio, ora attaccato sia da chi lo considera troppo propenso ai compromessi per aver trattato con la Lega sia da chi lo giudica un irresponsabile per aver chiesto la messa in stato d’accusa di Mattarella. E, capolavoro finale, mentre Salvini innesca la crisi si presenta anche come suo argine, il più responsabile tra gli irresponsabili perché a differenza dei Cinque Stelle non chiede le dimissioni di Mattarella e difende il presidente della Bce Mario Draghi da chi segue logiche complottiste in cerca di capri espiatori.

Stabilito chi è il vincitore e quali sono i suoi moventi, vediamo la distribuzione delle responsabilità nella trasformazione di una crisi “nel” sistema in una crisi “di” sistema.

Una buona dose di colpe se la deve prendere proprio il tandem Lega-Cinque Stelle. Nella bozza di contratto di governo rivelata qualche giorno fa dall’Huffington Post era indicata l’ipotesi dell’uscita dall’euro: un tema che i Cinque Stelle avevano espunto esplicitamente dalla loro agenda come parte della svolta moderata decisiva per attirare consensi sul Movimento. Come ci era finita quella proposta – non certo un dettaglio – in un documento così delicato? Che si sia trattato di una (gravissima) ingenuità o di una sottile manovra di Salvini per destabilizzare, quella fuga di notizie ha minato in modo irreversibile la credibilità dell’esecutivo gialloverde: poiché non si può uscire dall’euro con un democratico dibattito pubblico e una lunga discussione parlamentare, elettori e investitori si sono fatti l’idea che Lega e Cinque Stelle considerassero l’uscita improvvisa dalla moneta unica come uno degli sbocchi possibili della loro politica economica.

Il secondo indizio che il governo Conte sarebbe stato molto più destabilizzante di quanto dichiarato è arrivato proprio con la versione finale del contratto di governo: nessun accenno all’uscita dall’euro, ma impegni di spesa e di riduzione delle tasse incompatibili non soltanto con il rispetto dei vincoli di bilancio (europei, ma pure italiani, addirittura di rango costituzionale) ma anche con la credibilità dell’Italia come debitore sui mercati obbligazionari. Mentre tutti si chiedevano da dove sarebbero arrivate le risorse per rispettare quel programma, esponenti leghisti come Claudio Borghi dicevano senza ambiguità che il debito non è un problema, che tutto si può fare. Sottinteso: se si esce dall’euro.

Terzo segnale preoccupante: l’indicazione di Paolo Savona al ministero. Le sue posizioni euro-critiche sono state sviscerate. Ma Savona dice e pensa cose molto più moderate dei parlamentari leghisti e di molti Cinque Stelle, non è certo il più radicale tra gli economisti che discutono di cose europee e, dopo un’intera vita nel cuore dell’establishment italiano, difficilmente si sarebbe comportato da dilettante irresponsabile. Però un ministro euroscettico per applicare un programma che, se preso sul serio e non come la solita lista di promesse elettorali non realizzabili, suggerisce una rottura completa con l’Unione europea ha spinto il Quirinale a reazioni drastiche.

Qui finiscono però le responsabilità della coalizione “Salvimaio” e cominciano quelle di Mattarella.

Con le intenzioni di sostenere le ragioni dell’europeismo, Mattarella è diventato il testimonial di ogni rivendicazione sovranista. E’ andato in televisione a dire che per nominare il ministro dell’Economia serve il via libera dello spread, ha sostenuto che erano in corso (inesistenti) effetti a catena che minacciavano i mutui e i risparmi degli italiani. Una esagerazione speculare a quella degli anti-euro che attribuiscono alla moneta unica la responsabilità di ogni male. Ora il Quirinale si prepara ad affidare il Paese a un governo estraneo al risultato elettorale e privo perfino della fiducia del Parlamento, guidato da un ex dirigente del Fondo monetario internazionale, Carlo Cottarelli. Se Steve Bannon o Alberto Bagnai avessero potuto scrivere i discorsi del capo dello Stato, non avrebbero potuto immaginare un testo più funzionale alla causa sovranista.

Come ha scritto sul Fatto il politologo di Oxford (convinto europeista ma critico) Jan Zielonka, “i frequenti riferimenti dei critici all’aumento dello spread e ai cali della Borsa di Milano suggeriscono che debbano essere i mercati, invece che gli elettori, a decidere il destino degli italiani. Questa è una sentenza capitale per la democrazia, non importa sotto quale bandiera politica sia pronunciata”.

Per proteggere l’Italia e l’Europa dalle derive sovraniste Mattarella avrebbe dovuto far partire il governo Conte, accettare la nomina di Savona (che poteva essere bilanciata da quello di un tecnico di grande reputazione come Enzo Moavero agli Affari europei) e assecondare la richiesta degli elettori di avere “non soltanto politici diversi ma anche politiche diverse”, come ha riassunto sempre Zielonka. Al via libera avrebbe però dovuto accompagnare un messaggio fermo e inderogabile, in linea con il suo discorso che il capo dello Stato ha tenuto a Firenze: nessuna legge anti-europea o incompatibile con i trattati dell’Ue, ratificati dal Parlamento e legittimati dalla Costituzione, avrebbe mai visto la firma del Quirinale. Basta applicare le regole che ci sono, in piena trasparenza, senza scivolare nella zona grigia della discrezionalità.

E se il problema era davvero soltanto Savona, c’erano mille altre ragioni per contestarne la nomina diverse dal disaccordo sulle idee: la sua disinvoltura da presidente di una società quotata (Impregilo), le intercettazioni imbarazzanti, gli attacchi alla Banca d’Italia nel suo ultimo libro, l’età avanzata che rende difficile sopportare i ritmi di lavoro richiesti a un ministro dell’Economia.

Mattarella ha causato un altro danno alla causa che vuole difendere: ha scelto il momento sbagliato per innescare lo scontro finale tra sovranisti ed europeisti. Il campo a lui avverso è saldamente presidiato da Salvini e, ora, di nuovo anche dai Cinque Stelle. Dal lato europeista c’è il deserto: il Pd, che ha cavalcato ogni demagogia eurocritica con Matteo Renzi, cerca ora di candidarsi a baluardo del buonsenso e dell’Europa recuperando Paolo Gentiloni. Ma è un tentativo già fallito il 4 marzo e ora il Pd è ridotto a spettatore senza possibilità di tornare protagonista. L’esperimento di +Europa di Emma Bonino si è dimostrato un dei mille esempi della politica di testimonianza che ha sempre appassionato i Radicali e la sinistra estrema. E qualcuno crede davvero che Forza Italia, con l’impresentabile Silvio Berlusconi, possa incarnare i valori del manifesto di Ventotene e di Jean Monnet?

L’unico argomento che un fronte europeista – tutto da costruire – può usare contro Salvini e, forse, contro i Cinque Stelle è che le loro politiche rischiano di condannare l’Italia all’irrilevanza in Europa e nel mondo. Ma questo fronte, nell’attesa di trovare il proprio campione, deve elaborare un messaggio convincente, trovare ragioni condivisibili da offrire a elettori rancorosi e spaventati (talvolta giustamente).

Pensare di imporre le idee – anche le più nobili – agitando la minaccia dello spread, dell’irritazione degli hedge fund, e delle ritorsioni di Bruxelles è la garanzia per assicurare la vittoria ai sovranisti. La Brexit lo ha dimostrato.

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