di Roberto Iannuzzi*

Esacerbando il già teso clima internazionale, Donald Trump ha infine deciso di uscire dall’accordo nucleare con l’Iran. Ma bisogna essere chiari: quello che è stato descritto come un “ritiro” americano dal cosiddetto Joint comprehensive plan of action (Jcpoa) è in realtà una violazione pura e semplice dei termini dell’accordo. Anzi, è il culmine di una serie di violazioni da parte statunitense.

Il Jcpoa prevedeva infatti che, oltre a cancellare le sanzioni legate al programma nucleare, gli Stati Uniti non ostacolassero la reintegrazione dell’Iran nell’economia mondiale. Non solo Washington non ha ottemperato a quest’obbligo – intralciando le transazioni finanziarie fra le banche europee e l’Iran -, ma esponenti dell’amministrazione Trump hanno più volte apertamente scoraggiato le imprese occidentali dall’investire nel Paese.

A fronte di questi abusi statunitensi, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha certificato per almeno 11 volte la piena ottemperanza iraniana dell’accordo. Alla luce di ciò, la scelta di Washington di rinnegare unilateralmente il Jcpoa, riapplicando le sanzioni a chiunque abbia rapporti economici con Teheran, rappresenta una nuova e ancor più grave infrazione alla legalità internazionale da parte americana. Contrariamente a quanto affermato da Trump, la decisione di uscire dal Jcpoa non è motivata dal desiderio di impedire che l’Iran entri in possesso dell’arma nucleare. Al contrario, proprio un definitivo collasso dell’accordo renderebbe possibile una simile evenienza. Il Jcpoa offre, infatti, strumenti di monitoraggio del programma nucleare iraniano che sono senza precedenti e che verrebbero a mancare qualora l’intesa nel suo complesso dovesse fallire.

Il vero obiettivo di Trump sembra essere quello di reimporre l’assedio economico che esisteva nei confronti dell’Iran prima della firma dell’accordo nel luglio del 2015, al fine di favorire un cambio di regime a Teheran. Tale obiettivo è condiviso da una nutrita schiera di falchi ed elementi neoconservatori che hanno progressivamente occupato numerosi posti chiave all’interno dell’amministrazione.

A ciò punta anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’azione politica di Tel Aviv è apparsa per diversi aspetti coordinata con Washington. Israele è sempre più determinata a contrastare la presenza militare iraniana nella vicina Siria e in generale a contenere l’influenza di Teheran nella regione mediorientale. Nei primi mesi del 2018 si è registrata un’escalation di attacchi aerei israeliani contro obiettivi iraniani in territorio siriano.

Lo scorso 30 aprile – dopo che la notte precedente l’aviazione di Tel Aviv aveva colpito l’ennesima base iraniana vicino a Hama – Netanyahu ha tenuto una scenografica presentazione nella quale ha svelato materiale relativo ai presunti sforzi iraniani di costruire un ordigno nucleare. Il premier israeliano intendeva dimostrare che l’Iran aveva ingannato la comunità internazionale, firmando il Jcpoa ma allo stesso tempo continuando a lavorare alla realizzazione dell’arma atomica.

Come confermano fonti israeliane, la scelta di fare queste rivelazioni a pochi giorni dalla scadenza che Trump aveva fissato per decidere se gli Stati Uniti sarebbero rimasti nell’accordo o meno, era stata coordinata con l’amministrazione americana. Le rivelazioni di Netanyahu avevano lo scopo di fornire una giustificazione all’abbandono del Jcpoa da parte di Trump, addossando all’Iran (invece che agli Usa) la colpa di aver violato i termini dell’intesa.

Il materiale che l’intelligence israeliana avrebbe trafugato da un “archivio segreto” a Teheran, tuttavia, non fa altro che confermare ciò che l’Aiea già sapeva, cioè che l’Iran aveva compiuto solo alcuni studi preliminari finalizzati alla costruzione di un ordigno nucleare, che si erano interrotti prima del 2003. Non ci sarebbe dunque nessun tentativo iraniano di ingannare l’Aiea e gli altri Paesi firmatari dopo la ratifica del Jcpoa (come ha insinuato il premier israeliano). Tale convincimento è condiviso dall’intelligence americana e dai principali esperti nucleari internazionali. Netanyahu sembra però propenso a giungere a una resa dei conti immediata con l’Iran, piuttosto che a rimandarla. Lo confermerebbe il fatto che, alcune ore dopo che Trump aveva ufficialmente comunicato la propria decisione di sconfessare l’accordo, forze israeliane hanno ancora una volta provocatoriamente bombardato postazioni iraniane vicino a Damasco.

Israele ha compiuto un attacco ancora più intenso la notte successiva ma questa volta sono stati colpiti obiettivi dell’esercito siriano, il quale ha risposto lanciando alcuni razzi in territorio israeliano. I media israeliani e fonti giornalistiche occidentali hanno erroneamente riferito che la rappresaglia sarebbe stata compiuta dalla Guardia rivoluzionaria iraniana, piuttosto che da forze siriane, alimentando la tesi di un confronto israelo-iraniano in Siria.

Il premier israeliano naturalmente vuole Trump al proprio fianco in questa sfida e ha accolto con favore la decisione del presidente americano di uscire dal Jcpoa come premessa necessaria per un rinnovato isolamento dell’Iran. Per ironia della sorte, i vertici militari israeliani considerano invece pericolosa la scelta di Trump, poiché l’accordo nucleare garantiva a Israele una finestra di almeno 10-15 anni, durante i quali l’Iran non avrebbe ottenuto l’arma atomica.

Sebbene Teheran abbia ribadito la propria intenzione di continuare a onorare il Jcpoa qualora gli europei facciano lo stesso, le incognite restano molte. L’Europa deve dimostrare di essere in grado di opporsi con successo alle sanzioni americane. Ma altrettanto importante è scongiurare una deflagrazione del conflitto israelo-iraniano in Siria.

Autore del libro Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo (2017)

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