di Luigia Cusano

Il clamore post elettorale che ha consacrato la vittoria (soprattutto al Sud) del Movimento 5 stelle con la proposta del “reddito di cittadinanza sembra aver portato nuovamente alla ribalta l’annoso tema del rinnovamento e del potenziamento dei servizi per l’impiego.

Le riforme e i programmi operativi che si sono susseguiti a ritmi incalzanti negli ultimi anni – da Garanzia giovani all’entrata in vigore del Dlgs 150/2015 (con l’ introduzione di misure come ad esempio l’assegno di ricollocazione), per citarne solo alcuni – hanno impattato pesantemente sull’organizzazione dei servizi al lavoro: tanto quelli pubblici che quelli privati, infatti, si sono ritrovati a dover improvvisare (più o meno abilmente) servizi nuovi e un diverso rapporto con i cittadini in cerca di opportunità formative o lavorative, ma hanno anche dovuto confrontarsi con i diversi livelli di governance (regionale e nazionale).

Questa pluralità di attori e decisori non ha agevolato, rendendo tutti i processi più vischiosi, soprattutto se si pensa che “a valle” occorre fornire risposte in tempi rapidi a incalzanti domande di aiuto provenienti da diversi target di utenza. Ad esempio – nella misura che più assomiglia al reddito di cittadinanza – il cosiddetto Rei (reddito di inclusione “attiva”), a cui spesso si dimentica di aggiungere l’aggettivo che dovrebbe qualificare il senso di un intervento che, altrimenti, rischia di restare mero assistenzialismo fine a se stesso.

Il Rei, appunto, consiste – oltre che nell’erogazione di un reddito – nell’analisi e presa in carico non di un unico soggetto, bensì di un intero nucleo familiare, da parte di una equipe multidisciplinare composta da assistenti sociali, servizi per l’impiego, medici e/o psicologi delle Asl al fine di individuare il bisogno prevalente, identificando da cosa derivi il disagio che lascia quelle famiglie-target in uno stato di indigenza.

A situazioni complesse come quella appena accennata non possono corrispondere risposte semplici e la qualità dei servizi non può prescindere da chi li eroga. Dalla preparazione, dalla professionalità, dalla competenza e dall’expertise degli operatori a cui sono richieste conoscenze multidisciplinari che spaziano dall’approfondita conoscenza del mercato del lavoro e delle professioni ai meccanismi che regolano il possibile incrocio domanda-offerta; dalla dimestichezza nell’uso di fonti informative di settore e banche dati alla capacità di interagire efficacemente con un’ampia tipologia di utenza, modulando con consapevolezza il proprio linguaggio e approccio, padroneggiando le tecniche di ascolto e comunicazione al fine di instaurare relazioni di aiuto autentiche. Con etica, competenza e professionalità: tre parole chiave della funzione psicologica applicata alla dimensione lavorativa.

Alla luce di tutto questo appare fondamentale il presidio di psicologi di area lavoro se si intende, una volta per tutte, sdoganare e riqualificare i servizi per il lavoro con figure professionali specializzate nella presa in carico, nella relazione di aiuto e nelle diverse azioni ad essa conseguenti.

Il monitoraggio Isfol – ormai datato 2014 – fotografava impietosamente la situazione dei Centri per l’impiego pubblici: circa 8000 addetti, di cui 2000 precari (spesso i più professionalizzati) e 3000 deputati alle sole pratiche amministrative; la Germania ne conta circa 100.000, di cui 80.000 sono orientatori. Senza addentrarsi oltre, può bastare questo dato, per rilevare quale profondo gap separi il nostro Paese dalla Germania ma anche dagli altri Paesi europei in tema di servizi per il lavoro.

Dal 2008 – anno che coincide con l’inizio della più grave crisi economica dal dopoguerra – l’Italia ha speso in politiche per il lavoro meno della metà rispetto alla Germania, allocando briciole in politiche attive e ancor meno sui servizi per l’impiego, che sono diventati il capro espiatorio di tutto ciò che non funziona, dell’inefficacia e dell’imbarbarimento di un settore che andrebbe sostenuto con investimenti strutturali in termini numerici e di professionalità.

Anche sul tema meno battuto della riorganizzazione di questi servizi, l’apporto di esperti di cambiamenti e processi organizzativi potrebbe essere assai utile e favorire quel difficile ma ormai necessario – mi verrebbe da dire finalmente ineluttabile – salto di qualità e di paradigma che questi servizi debbono fare, per essere all’altezza delle sfide e della pesante eredità che i lunghi anni di crisi hanno consegnato a noi e ai nostri figli.

Articolo Precedente

Facebook pubblico o privato? Se parlate male del vostro capo occhio alle impostazioni

next
Articolo Successivo

Pensioni, Inps: “Più del 70% degli assegni mensili privati è inferiore a 1.000 euro”

next