di Umberto Carabelli*

Invitato a un recente incontro di Agenquadri, dal titolo Cambia il futuro, per discutere sui temi dell’innovazione digitale applicata ai processi produttivi  e dei suoi effetti sul lavoro, ho provato a riflettere sul futuro ruolo del sindacato a tutela dei lavoratori, ben conscio della scarsa affidabilità di gran parte della sinistra politica, ormai asservita, da più di vent’anni, all’ideologia neoliberista dominante. Il concetto guida è stato che, nella lunga fase di trasformazione/transizione davanti a noi, la rivoluzione digitale interesserà in profondità tutti i sistemi produttivi e relazionali, e che il sindacato, nella consapevolezza di ciò, dovrà dare contenuto moderno alle tre funzioni tipiche svolte nel mondo capitalistico: l’organizzazione degli interessi del lavoro, la lotta per il controllo del mercato del lavoro, la regolazione dello scambio tra lavoro e capitale.

Quanto alla prima, entrerà in crisi l’esigenza generale di un’organizzazione degli interessi di tipo settoriale/verticale (fondata, cioè, sulla natura dell’attività d’impresa), mentre crescerà quella di un’organizzazione di tipo neo-professionale/orizzontale (più attenta, cioè, alla natura dell’attività lavorativa), per la quale assumerà rilievo l’aspetto geografico/territoriale. Ciò pure nella prospettiva, doverosa per il sindacato, di includere nel proprio orizzonte di tutela gli interessi dei lavoratori dispersi nel territorio, oggi non raggiunti dai processi di sindacalizzazione.

Della funzione di lotta si è parlato poco in questa fase storica, in cui, grazie al controllo dei processi globali di innovazione e alla minaccia delle delocalizzazioni verso paesi a basso costo del lavoro, è prevalsa la forza del capitale internazionale. Ebbene, il sindacato dovrà risvegliarsi dal torpore e lanciarsi in grandi battaglie per la difesa dei suoi valori in un’economia digitalizzata, sfruttando la libertà sindacale e il diritto al conflitto riconosciuto da Carte internazionali e dalla Costituzione. Con la consapevolezza, peraltro, che già si aggira il fantasma di interventi legislativi, fortemente auspicati dalle forze del capitale, volti a frenare una rinata conflittualità a sostegno delle nuove rivendicazioni sindacali di riconoscimento e negoziazione.

Infine, appunto, la funzione di regolazione, che il sindacato dovrebbe esprimere attraverso la contrattazione e la rivendicazione di riforme legislative in favore del lavoro, con la precisazione che per “regolazione” intendo in generale pure la definizione di norme di disciplina del welfare, destinate a tutelare la debolezza e fragilità dei lavoratori quando il lavoro non c’è (la disoccupazione, anche parziale, tenderà assai probabilmente a diventare un fenomeno strutturale). Quanto, specificamente, alla regolazione delle condizioni di lavoro, l’azione sindacale dovrà tener conto di due fenomeni tra loro strettamente correlati. In primo luogo, tutte le imprese (salvo quelle marginali), e non soltanto le società di servizi come Foodora , Deliveroo, Uber, etc., utilizzeranno sempre più piattaforme digitali al fine di integrare tra loro le varie componenti della loro attività, dalle strutture fisse al lavoro; esse, in altre parole, si organizzeranno per mezzo di sistemi di programmazione algoritimica, all’interno dei quali troverà spazio l’utilizzazione intensiva della robotica e dell’intelligenza artificiale, a sostegno, ma anche a parziale sostituzione, dell’umano. Per effetto di ciò, si verificheranno grandi cambiamenti in relazione a modalità e contenuti delle attività lavorative.

Grazie alle nuove tecnologie, la subordinazione – cioè il potere datoriale di etero-dirigere ad libitum l’esecuzione della prestazione – si manifesterà in modi diversi dal passato, poiché la diffusione del lavoro cognitivo implicherà in generale un accrescimento degli spazi di autonomia operativa e decisionale: si pensi, ad esempio, al cosiddetto lavoro agile, caratterizzato da luogo e tempo di lavoro flessibili, e da strumenti di lavoro digitali come notebook, tablet, cellulari, che consentono di essere sempre connessi alla piattaforma aziendale. Al tempo stesso, l’impresa digitalizzata potrà reciprocamente servirsi, in modo ampio (e non necessariamente fraudolento…), di lavoro autonomo, quantunque strettamente coordinato con la propria organizzazione. È tuttavia altresì probabile che potrà utilizzare – in modo parimenti intensivo, grazie al controllo centralizzato operato tramite i sistemi informatici – lavoro di breve durata sia subordinato che autonomo; e si pensi che quest’ultimo, ove occasionale, sfugge oggi ad ogni tipo di regolazione giuslavoristica.

A fronte di un quadro al momento così fluido e incerto, occorre rifuggire da tentazioni di laissez faire, perché l’assenza di discipline chiare ed esigibili eleva il rischio di una completa privazione di tutele dei lavoratori, soprattutto quando, in ragione della brevità/occasionalità del rapporto, l’avventurarsi in un’azione giudiziaria incerta “non vale la candela”. Al contrario, affinché il domani dei nostri figli sia meno insicuro, bisognerà superare situazioni di anomia o scarsa regolazione, definendo un quadro puntuale di diritti.

A questo riguardo, il progetto di legge di iniziativa popolare denominato Carta dei diritti, varato dalla Cgil lo scorso anno, ha previsto, al Titolo I, un’ampia rete di diritti universali spettanti a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla qualificazione giuridica del loro rapporto. Oltre a questo, negli altri titoli ha ridisegnato le discipline riguardanti i vari tipi di contratto di lavoro subordinato (anche ripristinando l’art. 18 dello Statuto), prevedendo, all’art. 42, l’estensione delle tutele del lavoro subordinato alle collaborazioni coordinate e continuative, nonché ad alcune forme tendenzialmente stabili di lavoro autonomo. A tre anni dall’inizio della progettazione della Carta alcune tendenze economiche si sono chiarite e forse la Cgil dovrebbe già pensare a qualche ritocco di “manutenzione”.

Così, ad esempio, si dovrebbe affrontare il predetto problema della diffusione di forme di lavoro autonomo occasionale di breve periodo, che restano fuori anche dalla portata della Carta. Bisognerebbe poi prevedere discipline volte ad assicurare una ricomposizione (continuità) giuridica dei rapporti di lavoro frammentari, al fine di restituire maggiori certezze esistenziali ai nostri giovani (penso soprattutto a diritti di precedenza, ovvero a vincoli di rinnovo contrattuale, o istituti simili), anche assicurando il diritto ad occasioni di formazione permanente per la salvaguardia e crescita delle competenze. Sul fronte del welfare, poi, occorrerebbe proteggere, come ho già detto, i lavoratori afflitti dalla discontinuità dei loro rapporti, tanto subordinati che autonomi, nei periodi di non lavoro, attraverso forme miste di tutela negoziale e legale; un tema, questo, che interseca la questione della opportunità di introdurre, anche nel nostro paese, strumenti di tutela del reddito dei lavoratori/cittadini.

Altro forse si potrebbe aggiungere. È presumibile, peraltro, che le previsioni della Carta, che pure ambiscono a fornire un quadro sistematico di regole di disciplina del lavoro, potranno fungere soltanto da indirizzo per le forze politiche che, nella prossima legislatura, dovessero riconoscersi (in parte o in tutto) nel disegno. Il sindacato ha dunque, per suo conto, una grande responsabilità: cercare di raggiungere autonomamente, per quanto possibile, gli obiettivi della Carta con lo strumento ad esso più congeniale, la contrattazione collettiva, in grado di collocarsi non solo a valle, ma anche a monte dei processi di innovazione (bisogna “contrattare l’algoritmo”, ha detto efficacemente Susanna Camusso). E per far questo verranno inevitabilmente in ballo quelle sfide di riorganizzazione e di rilancio del conflitto di cui ho parlato in apertura.

* Direttore della Rivista giuridica del Lavoro e della previdenza sociale

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