Piet Oudolf, architetto paesaggista olandese, autore tra l’altro del progetto del verde per la celebrata High Line a New York, disegna a Venezia il Giardino delle Vergini per la Biennale di Architettura del 2010 diretta da Kazuyo Sejima, sistemando una parte degli spazi aperti in abbandono dell’Arsenale, prossimi ai capannoni che ospitano le mostre di arti visive e architettura.
Per la Biennale d’Architettura successiva, la tredicesima, diretta da David Chipperfield, Alvaro Siza e Eduardo Souto de Moura sono invitati a disegnare ciascuno un padiglione negli spazi adiacenti al Giardino delle Vergini. Souto de Moura disporrà il suo manufatto sul limite di una banchina, in prossimità dell’acqua, quello di Siza sarà costruito in uno spazio vuoto più interno. L’opera di Siza, come quella di Souto de Moura, doveva essere demolita alla fine dell’esposizione del 2012, ma per il valore architettonico e per la perfetta integrazione con gli spazi aperti disegnati da Oudolf, la Biennale ha ritenuto importante conservarla. Da anni dunque il Padiglione dà la possibilità, all’interno dell’Arsenale, di un’esperienza di spazio architettonico contemporaneo reale, dopo la profusione di fotografie, plastici, installazioni che in genere sommerge il visitatore delle mostre,  e anche di un momento di pausa dalla “rumorosità” visiva di certe biennali.

L’opera è intitolata semplicemente Percorso, probabilmente per l’attitudine dell’architetto portoghese a essere indifferente a tutto ciò che in architettura non riguarda aspetti concreti e, dunque, a rispondere con una tautologia alla richiesta di un titolo per un intervento dalla chiara intenzione progettuale di collegarsi, con le sue possibilità di percorso, ai sentieri del Giardino delle Vergini, portando i fruitori ad entrare, uscire, e magari rientrare nel padiglione, per poi riprendere il cammino verso l’interno del Giardino o verso l’acqua dei bacini dell’Arsenale. L’opera di Siza è un’architettura primordiale, primaria fatta attraverso la sola azione del recingere. Muri che disegnano un sistema di stanze a cielo aperto, ricavando spazio per stare e/o attraversare, tra i tronchi e le chiome di quattro grandi alberi.

Il Padiglione va ad aggiungersi, segno contemporaneo, all’eterogeneo contesto di manufatti di epoche e funzioni diverse dell’Arsenale, nel quale si affastellano i grandi capannoni espositivi, torrette di guardia, gru e ciminiere, le ampie coperture a falda sui bacini, un semplice fabbricato ad un solo piano, appena dietro il padiglione. L’elementare quanto potente dispositivo spaziale è costruito sulla dialettica originaria tra forme di natura e forme di astrazione. La piccola opera di Siza fa quel che ogni architettura dovrebbe fare, ovvero lega indissolubilmente l’opera di artificio alla natura che la contiene, attraverso il gioco delle ombre mobili di elementi naturali – gli alberi, i loro tronchi, i rami, le foglie, agitate dal vento – ogni momento diversi, nel corso del tempo del giorno, dell’anno. In concreto la dialettica, ricca di infinite variazioni percettive, si sviluppa tra la geometria degli alberi e quella dei muri; sono infatti gli alberi che danno un senso alle linee planimetriche.

I diversi tratti murari del recinto, reso discontinuo da piegature e interruzioni determinate dalla volontà di non toccare gli alberi, sono incisi da tagli verticali per mostrare i tronchi, i rami e le chiome che si compongono alle loro stesse ombre sui muri. Le diverse facciate non sono altro che piani di proiezione delle ombre, e di connessione tra la linea del suolo e la sommità dei muri, sulla quale visivamente “poggiano” le chiome degli alberi. Questo lavoro recente di Siza riporta ad alcune sue opere di oltre mezzo secolo fa, come lontani antecedenti: la celebre piscina di Leça da Palmeira a Matosinhos con la sua architettura di muri; il padiglione della facoltà di Architettura a Porto con la stretta dipendenza, del disegno della pianta, dalle alberature preesistenti; l’introversa casa Santos a Povoa do Varzim e l’altra, meno nota, piscina di Matosinhos nel parco della Quinta da Conceicão, per i piani murari come schermi di proiezione delle ombre mobili di tronchi, rami e chiome.

È molto chiaro poi, in quest’opera, il riferimento all’architetto messicano Luis Barragan e a Fernando Tavora, maestro di Siza; un omaggio da parte di un protagonista dell’architettura contemporanea al culmine della carriera, a due degli autori chiave della sua formazione in anni giovanili. Il tema dell’interdipendenza tra fabbricato e alberi esistenti non è certo nuovo in architettura; è molto presente in quella spontanea, ma anche proprio ai Giardini della Biennale, dove almeno due padiglioni, quello del Canada di Bbpr del 1958 e quello dei paesi scandinavi del 1962, disegnato da un giovane Sverre Fehn, inglobano alberi nei loro spazi e ai quali, quello di Siza, idealmente si richiama. In queste piccole architetture per la Biennale di Venezia sembra evidente non solo la necessità di conservare gli alberi, ma soprattutto la scelta di voler trattare gli alberi come preesistenze con cui stabilire un rapporto di complementarietà, addirittura un’opportunità da cogliere per costruire il senso di uno spazio nuovo.

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