Davanti all’ambasciata italiana non c’è neanche un mazzo di fiori. Lo scoccare dei 24 mesi senza Giulio Regeni al Cairo passa quasi inosservato, fagocitato da un altro anniversario: quello della rivoluzione che 7 anni fa destituì Hosni Mubarak. Un evento che calamita l’attenzione dei media stranieri e soprattutto paralizza la città perché la morsa del governo egiziano ha un solo scopo: far sì che un’altra piazza Tahrir non accada mai più.

Nell’edificio di Garden City dove il nuovo ambasciatore Giampaolo Cantini ha preso servizio, dopo più di 16 mesi di assenza del capo della missione diplomatica, non si terrà nessuna commemorazione. I diplomatici hanno rispettato la volontà della famiglia di Giulio, che continua a criticare la normalizzazione dei rapporti tra Italia ed Egitto, limitandosi ad affidare al Tg1 un messaggio per i suoi genitori: “E’ un messaggio di continuazione dell’impegno. I risultati ottenuti sono stati basati su uno stretto raccordo e una concertazione quasi quotidiana tra le istituzioni, il governo italiano, l’ambasciata, la Procura di Roma – che ha fatto un lavoro straordinario – e la Procura del Cairo”, ha affermato Cantini, aggiungendo: “E su questa strada dobbiamo continuare per avere la verità sulla brutale esecuzione di Giulio”. Ma la strada per la verità, nonostante i proclami, continua a mostrarsi tortuosa.

È il 25 gennaio di due anni fa quando il ricercatore di Fiumicello, che sta svolgendo un dottorato sui sindacati indipendenti egiziani presso l’Università di Cambridge, esce dalla sua casa nell’area di Buuth e si dirige alla fermata della metropolitana. Sta andando in centro, verso piazza Tahrir, a incontrare degli amici, ma scenderà alla fermata successiva perché la zona è blindata: è il giorno dell’anniversario della rivoluzione del 2011 e nell’Egitto della controrivoluzione di al-Sisi le forze di sicurezza vogliono evitare qualsiasi problema. Giulio scompare. Nessuno è ancora in grado di sapere se sia svanito nel nulla in quei 400 metri da casa alla fermata di Buuth o dopo, mentre dalla fermata di Naguib si dirigeva verso Bab el-Louq.

La magistratura egiziana, infatti, non ha mai consegnato le immagini delle telecamere di sorveglianza che si trovavano nelle stazioni della metro o lungo il percorso. Si è sempre rifiutata di spedirle alla società tedesca che le avrebbe dovute analizzare perché sarebbero sovrascritte. L’estate scorsa le autorità avevano parlato anche di una società russa, ma alla fine quei nastri non sono mai usciti dalle mani degli investigatori cairoti. L’ultima promessa era arrivata il primo dicembre dal Ministro degli Affari Esteri Samir Shoukry ma i video, ancora una volta, non sono mai giunti alla Procura di Roma.

Quello che è arrivato a piazzale Clodio è, invece, un nuovo faldone di 1000 pagine consegnato lo scorso dicembre anche ai legali della famiglia Regeni al Cairo, che per la prima volta hanno ottenuto delle carte dagli investigatori locali. Conterrebbero nuovi elementi e le risposte di un altro poliziotto di cui da Roma era stato chiesto l’interrogatorio. Dal 3 febbraio, giorno del ritrovamento del corpo, la collaborazione fra i giudici egiziani e italiani si è rivelata alterna e contraddittoria. Inizialmente le autorità locali hanno negato le loro responsabilità avvallando diverse versioni che andavano dall’incidente stradale alla pista omosessuale. Il tentativo di depistaggio fatto nel marzo del 2016 in cui le forze egiziane uccisero 5 persone accusate di essere una banda di rapitori di stranieri, e facendo ritrovare i documenti di Giulio nella loro abitazione, provocò il ritiro dell’ambasciatore italiano.

Da allora numerosi incontri tra procure e il rifiuto del Cairo di permettere agli investigatori italiani di interrogare direttamente alcuni membri delle forze di sicurezza lasciano una ricostruzione ancora parziale ma soprattutto non spiegano da chi sia partito l’ordine, e perché, di attenzionare e uccidere Giulio Regeni. La mancanza di queste informazioni continua ad alimentare l’attenzione su qualsiasi potenziale elemento di prova.

Come l’ultimo documento che sarebbe stato inviato in maniera anonima all’ambasciata italiana di Berna. Un rapporto impossibile da verificare, e definito falso dagli inquirenti del Cairo, perché gli elementi in mano alla Procura romana continuano a essere troppo pochi. “Siamo riusciti ad avere una copia del faldone, ma dobbiamo mantenere la massima riservatezza, rispettando l’ordine della Procura – spiega Mohammed Lotfy, legale dell’ECRF, l’organizzazione che rappresenta la famiglia Regeni in Egitto – il contenuto degli interrogatori potrebbe essere decisivo per ricostruire le cause del rapimento e della morte di Giulio”.

La traduzione complessiva richiederà ancora del tempo, ma secondo fonti sentite da IlFattoQuotidiano.it i documenti confermerebbero i nomi degli indiziati già apparsi nei precedenti scambi investigativi tra i magistrati italiani e quelli cairoti. Le carte confermerebbero infatti il coinvolgimento di Sharif Magdi Abdlaal, capitano della sicurezza di Stato. Era l’uomo che teneva i contatti con Mohammed Abdallah, il capo degli ambulanti che ha filmato Giulio durante il loro incontro (il video fu pubblicato l’anno scorso dalla tv egiziana). È lo stesso che accusò e arrestò il direttore dell’ECRF Ahmed Abdallah. Poi c’è Mahmoud Hendy, l’ufficiale responsabile del depistaggio degli uomini giustiziati nel marzo del 2016, spacciati per una banda di rapitori di stranieri. Gli inquirenti italiani sono in possesso anche di un altro nome, quello di Osman Helmy, che secondo i tabulati telefonici analizzati da SCO e ROS sarebbe uno degli agenti della National Security che hanno arruolato Mohammed Abdallah.

Intanto qui al Cairo, in un’aria di piena campagna elettorale e con la ricandidatura di al-Sisi difesa a suon di manette nei confronti dei candidati rivali, gli attivisti politici restano scettici sul fatto che l’Egitto sia disposto a sviluppare ulteriormente la sua collaborazione, in particolare dopo il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo lo scorso settembre.

“Sarà difficile ottenere la verità, il caso di Giulio è troppo compromettente per l’apparato egiziano”, spiega Lina Attallah, fondatrice del giornale indipendente Mada Masr. “La dinamica è la stessa adottata verso migliaia di dissidenti interni. In alcuni casi, quando la vittima era egiziana, c’è stata la possibilità di indagare e processare dei poliziotti. Ma resta un’opzione rara”. Come rare sono le possibilità che a far luce sul rapimento, la tortura e la morte del giovane ricercatore italiano siano gli stessi apparati di sicurezza che li hanno messi in atto. Anzi, l’ormai assodato coinvolgimento di reparti e nomi di rango sia dell’intelligence interna sia di quella militare potrebbero continuare a rallentare la collaborazione del governo del Cairo.

“Se c’è una cosa che il presidente Sisi ripete sempre, anche in pubblico, è che bisogna far passare del tempo senza fare niente. Perché così le acque si calmeranno, la gente si dimenticherà”, dice al IlFattoQuotidiano.it Aida Seif al-Dawla, fondatrice del centro anti-torture Nadeem e tra le prime, 25 anni fa, a occuparsi della violenza all’interno delle carceri egiziane. “Chi conosce i metodi della sicurezza egiziana in questo momento, il peggiore per i diritti umani nella storia del Paese, sa che già che questi sono i metodi standard della polizia egiziana. Non è una sorpresa. Ciò che è anomalo è la posizione del governo italiano che ha preferito spostare l’attenzione sull’università di Cambridge. E’ poi probabile che ci siano diversi apparati egiziani coinvolti nel caso, lo dimostra il fatto che il corpo di Giulio sia stato ritrovato, altrimenti il suo caso si sarebbe aggiunto alla lista delle persone scomparse nel nulla (a oggi più di 1700, ndr). Qualcuno voleva rendere chiaro che questa persona era stata torturata e ha fatto scoprire il corpo”.

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