Come sostiene lo storico John Dickie, conduttore di History Channel, la storia italiana è una vicenda dove i disastri, naturali e non, hanno giocato, dall’unità nazionale in poi, un ruolo importante. Nel bene e nel male. Nel suo libro più recente, Dickie riesamina il tragico terremoto di Messina del 1908, interpretandolo come un fattore di unificazione, giacché innescò «un movimento di compassione e solidarietà patriottiche di proporzioni mai viste in un paese dove la debolezza del sentimento di identità nazionale è un luogo comune».

Sarà anche per questo che, all’indomani del terremoto di Amatrice dell’agosto 2016, una iniziativa del governo suscitò grandi speranze: il lancio del progetto “Casa Italia”. Battezzato secondo i canoni della società dello spettacolo, nessuno si sognò di criticare un nome che richiama ai più la sede provvisoria della nazionale di calcio in occasione dei campionati mondiali. Era la svolta giusta?

Nessuno si nascondeva che il nostro paese vanta record ineguagliabili di piani pluriennali in materia di catastrofi naturali. Tutti progressivamente franati nell’indifferenza e nell’oblio dopo la grancassa iniziale, come racconto nel mio libro sulle alluvioni d’Italia. Un nuovo tentativo di approcciare la questione sismica in modo sistematico era comunque benvenuto, una scelta diversa dalla pioggia di soldi pubblici che la politica ha spesso sparso sul territorio sotto forma di mancette elettorali. Un’acquerugiola di promesse che il prossimo dibattito elettorale non ci farà certamente mancare.

Sono perciò sorpreso dalle critiche molto severe che uno dei maggiori scienziati italiani in materia sismica, Enzo Boschi, muove al Rapporto sulla Promozione della sicurezza dai Rischi naturali del Patrimonio abitativo, pubblicato dalla “struttura di missione” #CasaItalia nell’autunno 2017: «Casa Italia: una grande iniziativa deludente». Boschi è socio dell’Accademia dei Lincei e fa parte a ragione dei top italian scientist, è noto in tutto il mondo per i suoi studi sismici ed è un esperto di guida scientifica, avendo retto per anni l’Ingv, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia che sorveglia la sismicità dell’intero territorio nazionale. Tra le varie critiche, c’è un richiamo all’importanza di uno dei maggiori contributi scientifici della storia delle Scienze della Terra italiane: «La Mappa di Pericolosità Sismica è il punto di arrivo di un impegno profondamente etico, assunto dalla comunità sismologica nazionale all’indomani del terremoto dell’Irpinia del 1980». E, nel merito, chi lavora da anni ai rischi naturali non può che concordare.

Non sono un esperto di geofisica né d’ingegneria sismica. Non sono perciò in grado di cogliere molti degli aspetti scientifici della critica di Boschi. Ma sono uno studioso di statistica degli eventi estremi in natura e, una delle critiche di Boschi mi ha particolarmente impressionato: «La pericolosità viene confusa con il rischio». Distinguere tra pericolosità, esposizione e vulnerabilità – le tre componenti che concorrono a definire il rischio – è un caposaldo di ciò che insegno da lustri ai miei studenti, nonché il presupposto scientifico da cui muove l’altra “struttura di missione” governativa in materia di rischi naturali, #italiasicura. E per capire che si tratta di un principio ormai consolidato, basta consultare il Rapporto Science for Disaster Risk Management 2017 della Commissione Europea, che premette: «La valutazione del rischio richiede l’identificazione del potenziale pericolo, così come la conoscenza del pericolo, compresa la sua probabilità, ciò che è esposto a tale pericolo e la vulnerabilità di tale esposizione al pericolo».

Credevo che confondere rischio e pericolosità fosse uno svarione mediatico, tipico di qualche cronista tutto agitato a reclamare l’impossibile messa in sicurezza della nazione: un obbiettivo irraggiungibile e velleitario, perciò particolarmente caro ai politici innamorati della facile demagogia. Mi sbagliavo?

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