di Francesco Montorio*

Il Jobs act ha introdotto nel nostro ordinamento il contratto di lavoro a tempo “indeterminabile”. In pratica, dal 7 marzo 2015 si può essere licenziati in qualsiasi momento e senza particolari motivazioni. “Conquista” vanto di Renzi: Noi abbiamo infranto il tabù dell’art. 18.

Servizio di Franz Baraggino e Gaia Scacciavillani

A ben guardare, però, anche per i lavoratori con un “vecchio” contratto a tempo indeterminato le tutele erano già state fortemente compresse: a più di 6,5 milioni di persone si applica l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, così come svilito da tutto l’impianto sostanziale e processuale della riforma Fornero del 2012. Per loro, il reintegro è un evento eccezionale e la procedura per ottenerlo è una “corsa a ostacoli”. Infatti occorre districarsi tra i casi di non facile interpretazione nei quali lo si può ottenere. Come l’”insussistenza” del fatto contestato nel motivo soggettivo o (addirittura) la “manifesta insussistenza” del fatto posto nel licenziamento per motivo oggettivo. Percorrendo un procedimento penalizzante per il lavoratore (che si avvia con la comunicazione che lo stesso riceve “per conoscenza”), con tempi ristretti per predisporre un’adeguata “difesa” e quel tentativo di conciliazione nelle Direzioni territoriali del lavoro (ora Itl), tanto inutile quanto doloroso per il lavoratore (interessante ascoltare chi lo ha provato). Per arrivare poi al primo grado di giudizio “sdoppiato”, con una prima fase a “rito sommario” (che sembra ben congegnata per sfavorire quell’accertamento sulla insussistenza o manifesta insussistenza, uniche chances lasciate al lavoratore per il reintegro).

Sempre con riguardo ai “vecchi” assunti, a queste difficoltà si aggiunge un ulteriore, grave, elemento di incertezza nei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, anche se riconosciuti “manifestamente infondati” (quindi illegittimi per la stessa, già limitante, normativa). Qui, infatti, a differenza delle altre fattispecie previste, non si prescrive al giudice il comportamento da tenere, si rinvia alla sua discrezionalità. Così l’articolo 1, 42° comma lettera b, dopo aver declinato una serie di comportamenti che il giudice deve adottare (condannare, annullare, sanzionare, dichiarare, eccetera) al 7° c precisa che il giudice “può altresì applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza (…). Può, non deve. Come dire chiaramente al lavoratore: “Attenzione, il tuo reintegro non sarà mai certo, anche nel caso tu riuscissi a dimostrare quanto tutto sia manifestamente infondato”. Le possibilità di reintegrazione sono oramai ridotte al minimo. Ragionevole pensare che molti desistano dal far valere le proprie ragioni e che l’80 % dei casi di licenziamento si risolvano con un accordo (conferenza stampa Renzi del 1° settembre 2014).

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Il tutto senza alcun reale sistema sanzionatorio a fungere da deterrente anche ai più spregiudicati comportamenti aziendali. Come quando si accerta che il licenziamento è discriminatorio. Dove il giudice, con la stessa sentenza con la quale ordina la reintegrazione (mero ripristino della situazione illegittimamente alterata), condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno in termini di mensilità e contributi che, in sostanza, verserebbe comunque al lavoratore dovendo ricostruirne la posizione. Nulla si aggiunge a quanto già dovuto. Anzi, addirittura, l’azienda può chiedere di dedurre eventuali compensi percepiti nel periodo di estromissione. E, solo se richiesto, il giudice condanna anche al risarcimento del danno non patrimoniale.

In questo panorama normativo, l’azienda, anche nell’ipotesi di giudizio, non ha nulla da perdere e può permettersi di andare avanti per anni, sino alla Cassazione. Nella peggiore delle ipotesi deve “solo” reintegrare il lavoratore, cioè ricostruire quanto ha illegittimamente interrotto. Per il lavoratore, nel frattempo, trascorrono anni di vita sospesa e di sofferenze ingiustamente patite anche dalla sua famiglia.

Per queste sofferenze, per gli anni di vita “persi”, non viene riconosciuto nulla. Proprio nulla. Così, quelle tutele conquistate “nel solco della Costituzione” sono oramai ridotte a mere parole. Parole vuote. Come “tutele crescenti”, monetizzazione del licenziamento. Come l’aggettivo “indeterminato”, che intende solo che il contratto non ha scadenza predefinita, non è, appunto, “determinato”. Senza tutele, il contratto di lavoro a tempo indeterminato è incerto, precario. Per questo, a tempo “indeterminabile”, perché privato di quella stabilità prima assicurata proprio dall’articolo 18, tabù infranto (già con la legge Fornero).

* Dipendente assicurativo con una trentennale esperienza maturata presso Società Leader. Professional Coach (diplomato ACSTH-ICF), ho tenuto docenze seminariali presso l’Università Insubria di Varese (Scienza della Comunicazione). Difendo la Costituzione col Comitato per il No di Milano, ora realizzo incontri per far conoscere la drammaticità delle Leggi di Monti e Renzi sui licenziamenti individuali e sostenere il ripristino dell’art. 18. Sono associato a Giuristi Democratici

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