In sordina, ben riparato dagli ombrelloni ferragostani che distraggono gli italiani in vacanza, il governo rimanda al Cairo il proprio ambasciatore in Egitto. Il precedente, Maurizio Massari, era stato richiamato in patria nell’aprile del 2016, dopo che l’ennesimo colloquio fallimentare tra le procure dei due paesi aveva dimostrato in via definitiva – se solo ce ne fosse stato ancora bisogno – l’assenza di collaborazione egiziana nel ricercare i colpevoli dell’atroce morte di Giulio Regeni.

Cosa è cambiato da allora? Che gli inquirenti egiziani sono stati disposti a condividere con l’Italia i documenti (in arabo) relativi all’interrogatorio di alcuni poliziotti? Difficile crederci. Le autorità egiziane in questi mesi hanno continuato nella loro mancanza di collaborazione alle indagini, che ha fatto seguito agli iniziali veri e propri depistaggi. È nel nome della realpolitik che siamo stati ancora una volta disposti a voltare la faccia di fronte alle sistematiche violazioni dei diritti umani che accadono in Egitto e di fronte al corpo martoriato di Regeni.

L’aiuto del dittatore Al-Sisi nel gestire il conflitto libico e le partenze dei migranti verso l’Italia giustifica il sacrificio della verità sulla morte del ragazzo. Quando Massari fu richiamato dall’Egitto, si poteva forse discutere se la misura fosse stata giusta o se invece si dovesse insistere anche con la pressione diplomatica nel pretendere che i colpevoli, con le loro evidenti implicazioni istituzionali, venissero individuati. Ma, una volta richiamato l’ambasciatore, rimandarne un altro alla chetichella con la prima scusa di distensione appare come un gesto dal significato inaccettabile per una democrazia avanzata quale l’Italia si vanta di essere.

Il New York Times ci racconta oggi come l’amministrazione Obama avesse informato il governo italiano sulle responsabilità istituzionali dell’Egitto nella sparizione e nella morte di Regeni. L’Italia risponde che nessun dato di fatto rilevante fu raccontato dagli americani. Declan Walsh, il giornalista del New York Times che ha seguito dal Cairo tutta la storia dell’assassinio Regeni, non sembra parlare a vanvera e sembra riportare informazioni molto corroborate. Ma certo non abbiamo modo di sapere come stiano realmente le cose. Indubitabilmente, tuttavia, ogni italiano si è potuto convincere della volontà dell’Egitto di gettare ombra sulle indagini inventando false piste e racconti surreali (chi non ricorda la storia della banda di criminali comuni travestiti da poliziotti che avrebbe rapito Giulio, con tanto di ritrovamento di borsetta con hashish?).

Nell’estate del 2015 il governo egiziano ha promulgato una legge emergenziale antiterrorismo che dà al presidente poteri fuori controllo con lo scopo ufficiale di assicurare ordine pubblico e sicurezza. La definizione di terrorismo che si trova nella legge è talmente vaga da poterci far rientrare quasi tutto quel che si desidera. E Al-Sisi in questi anni non si è certo limitato nell’utilizzare a piene mani i poteri speciali. Centinaia di persone considerate contrarie al regime sono state arrestate senza mandato dell’autorità giudiziaria, tenute in detenzione per periodi prolungati senza alcuna base giuridica. Sparizioni forzate, processi iniqui, torture, come quelle che tutti noi abbiamo letto sul corpo di Giulio Regeni.

Oggi i genitori di Giulio si sentono abbandonati dalle autorità del loro paese. “Sempre più in lutto!”, scrive la madre sul suo profilo Facebook. Ma noi ci siamo accorti della mossa del governo. Chiudiamo gli ombrelloni e non lasciamoli soli.

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