Il caos politico che attanaglia il Venezuela è solo la punta dell’iceberg di una disastrosa situazione economica e sociale che sembra non conoscere fine. L’inflazione ha raggiunto livelli record, mancano generi di prima necessità, il Pil è in caduta libera, le riserve valutarie sono agli sgoccioli: per la “Venezuela Saudita” il presente appare complicato e il futuro incerto. Ma c’è anche chi ha invece scommesso sul Paese. Tra gli altri Goldman Sachs, che nelle ultime settimane ha approfittato dei saldi di Caracas per acquistare 2,8 miliardi di dollari in bond, con uno sconto che ha sfiorato il 70 per cento.

Lo scorso 22 luglio oltre 35.000 venezuelani hanno attraversato la frontiera con la Colombia per comprare cibo, medicine e beni di prima necessità. Il confine era stato chiuso per 11 mesi dopo un presunto attacco di paramilitari colombiani contro una pattuglia militare venezuelana, che aveva provocato tre feriti nella città di San Antonio. Una ricerca condotta dalla Universidad Católica Andrés Bello e dall’istituto Ecoanalítica a novembre dello scorso anno ha rivelato che l’8% dei venezuelani ammette di cercare qualcosa da mangiare nella spazzatura: in numeri assoluti si tratta di 2,4 milioni di persone. Le stesse cifre emergono da uno studio della Cáritas de Venezuela, realizzato in quattro Stati del Paese, tra cui Caracas e Zulia, quest’ultima la maggiore regione produttrice di petrolio del Venezuela e del Sudamerica.

Secondo l’indagine Encovi (Encuesta sobre Condiciones de Vida en Venezuela), realizzata nel febbraio 2016 e diffusa quest’anno da Universidad Central de Venezuela, ancora Universidad Católica Andrés Bello e Universidad Simón Bolívar, le famiglie povere in Venezuela sono passate dal 48% del 2014 all’82%, con oltre la metà che rientra nei parametri di povertà estrema. La percentuale di persone che consuma due o meno pasti al giorno è passata dal 2015 al 2016 dall’11,3 al 32,5%, quasi 10 milioni di persone. Lo stesso studio rivela che il 72% dei venezuelani nell’ultimo anno ha perso peso senza volerlo, mediamente per 8,7 chilogrammi.

L’inflazione morde sempre di più e secondo DolarToday.com, che rileva il cambio del bolivar con il dollaro al mercato nero, la valuta venezuelana il 28 luglio ha sfondato il tetto dei 10.000 bolivares per dollaro. Vale a dire un crollo del 99,9% rispetto al 2010, quando il sito ha iniziato a tracciare il cambio parallelo e bastavano poco meno di 10 bolivares per ottenere un dollaro Usa. A luglio Maduro ha incrementato il minimo salariale del 50% per la terza volta nel 2017, portandolo a 97.531 bolivares al mese. Al tasso ufficiale rappresenta circa 65 dollari, ma nel mercato reale il valore di questo ammontare non supera i 10 dollari. Il governo sostiene la popolazione con dei voucher alimentari di 153.000 bolivares al mese, e dunque complessivamente il reddito minimo arriva a circa 25 dollari effettivi. E si è dunque resa necessaria all’inizio di quest’anno una revisione del taglio delle banconote, introducendo i biglietti da 1.000, 5.000, 10.000 e 20.000 bolivares. Il massimo taglio precedente era di 100 bolivares, un valore che aveva resistito quasi 10 anni, dopo l’introduzione dell’attuale “bolivar fuerte” nel 2008, a causa dell’inflazione e in sostituzione del precedente “bolivar” con un cambio di 1 a 1.000.

Secondo le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale, il Pil del Venezuela nel 2017 è in contrazione del 35% rispetto al 2013, il 40% pro capite. Valori superiori a quelli registrati negli Stati Uniti durante la Grande Depressione (1929-1933), quando il Pil si ridusse del 28%, in Russia (1990-1994), Cuba (1989-1993), e Albania (1989-1993). Ricardo Hausmann, docente ad Harvard e già ministro della pianificazione del Venezuela a inizio anni ’90 e chief economist dell’Inter-American Development Bank, definito qualche anno fa da Maduro un “criminale e sicario finanziario”, sottolinea che la riduzione del Pil nell’ultimo quadriennio comprende il calo del 17% della produzione di petrolio, ma non rileva il crollo dei prezzi dell’oro nero del 55 per cento. Le esportazioni di petrolio si sono ridotte di 2.200 dollari pro capite tra il 2012 e il 2016, di cui 1.500 dollari sono attribuibili alla discesa dei prezzi. Valori importanti, se si considera che il reddito pro capite dei venezuelani si ferma al di sotto di 4.000 dollari. In altre parole, se il Pil pro capite si è ridotto del 40%, il reddito nazionale si è ridotto del 51 per cento.

Il crollo del petrolio ha inoltre provocato una riduzione delle valute estere, e le importazioni si sono ridotte del 50% rispetto a un anno fa secondo le stime di Ecoanalitica. La Banca Centrale invece ha fornito i dati di luglio sulle riserve valutarie, che oggi ammontano a circa 10 miliardi di dollari, il livello più basso dagli anni ‘90. Nel 2011 erano circa 30 miliardi, nel 2015 erano scese a 20 e inoltre entro la fine dell’anno Caracas dovrà ripagare ulteriori debiti per 5 miliardi di dollari. Un problema in più è rappresentato dalla forma che assumono queste riserve, in buona parte detenute in oro, e dunque non liquide e soggette alle variazioni di prezzo nel mercato globale. La situazione appare molto complicata, se anche paragonata ai Paesi vicini. Brasile e Argentina, che stanno superando le recessioni in cui erano finite le loro economie, detengono rispettivamente riserve per 362 e 48 miliardi di dollari.

Una contestata boccata di ossigeno per Maduro è arrivata alcune settimane fa da Goldman Sachs, che ha acquistato bond di Pdvsa (la compagnia petrolifera statale) per un valore nominale di 2,8 miliardi di dollari tramite il broker Dinosaur Financial Group, sul quale l’opposizione ha dichiarato di voler far luce. I titoli, con scadenza nel 2022, sono stati però acquistati con uno sconto del 69%, portando nelle casse di Maduro solo 865 milioni di dollari. “Abbiamo investito nei bond Pdvsa perché riteniamo, come molti nell’industria dell’asset management, che la situazione nel Paese sia destinata a migliorare nel tempo. Abbiamo acquistato questi bond, che sono stati emessi nel 2014, sul mercato secondario e non abbiamo interagito con il governo del Venezuela”, si è difesa in una nota la banca d’investimento. Non la pensa così invece Torino Capital, altra investment bank newyorkese, che in un’informativa di pochi giorni fa segnalava che la probabilità di default del Paese nei prossimi cinque anni, sulla base dei credit default swap, è salita al 95,6%, mentre quella di Pdvsa ha raggiunto il 97,8 per cento. Lo stesso è accaduto con la probabilità di default nei prossimi 12 mesi, al 62,8% per i titoli di Stato e al 67,5% per la compagnia petrolifera.

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