di Francesco Desogus

“Se volessi punire una provincia, la farei governare dai filosofi”, diceva sarcastico Federico II di Prussia, per sottolineare le differenze tra il pragmatismo dell’uomo politico e le riflessioni teoriche dei filosofi. Con un colpo di spugna costituzionale si è provato a trascinare le province nei libri di storia. Sono sopravvissute e vengono “punite”.

Grazie alla riforma degli enti locali voluta da Graziano Delrio, che aveva una sua logica solo con la vittoria del referendario. Non è andata così: le Province sono ancora oggi esistenti e obbligatorie, devono amministrare ed essere messe in grado di funzionare. Hanno tolto loro la rappresentatività diretta perché gli organi politici adesso sono composti da sindaci e consiglieri comunali che si eleggono tra di loro.

Il ruolo dell’esecutivo, la giunta provinciale, è tutto accentrato nella figura del Presidente, niente più assessori. Per il resto nulla è cambiato perché rimangono in piedi tutte le funzioni assegnate dalla legge: per esempio costruzione e manutenzione di migliaia chilometri di strade provinciali, edilizia delle scuole superiori, valorizzazione e cura di notevoli patrimoni architettonici e culturali.

Da una parte l’abbandono a se stesse, dall’altra la stretta di cinghia imposta dallo Stato che obbliga anche di riversare ogni anno nelle casse centrali, sebbene non espressamente, buona parte delle entrate storiche e garantite delle province, lasciate così a semplici esattrici.

Come le imposte sulle Rc auto e di trascrizione dei veicoli. Si tratta di centinaia di milioni di euro essenziali per la sopravvivenza dell’ente. In alcuni casi si è giunti ad non avere più i soldi per gli stipendi di organici già ridotti, immaginarsi quando tappare le buche stradali. Sono andati oltre. Si sono istituite le città metropolitane che originariamente dovevano essere delle realtà circoscritte alle prime dieci metropoli italiane e i comuni contermini.

Siamo già a quota quattordici e, salvo poche eccezioni, ricalcano le intere province originarie. Se fosse passato lo stravolgimento costituzionale, sarebbero stati gli unici enti locali intermedi. Nel resto delle province italiane si sarebbero reinventati “Unioni” di comuni o “Aree metropolitane”. Neppure il film campione di incassi Quo vado?, con Checco Zalone, improntato su questa riforma disastrosa degli enti locali, ha scosso le menti illuminate del governo.

Ci mancherebbe, è un film comico. E’ tutto riassunto nella scena di quando una cliente chiama il protagonista, sempre nello stesso ufficio e con identico ruolo, ma ora non più provincia ma “area metropolitana”. La provincia non è solo una previsione di legge, un ente locale, una centrale burocratica con compiti vari, in certe realtà un carrozzone dispendioso.

La provincia ci contraddistingue, ci appartiene. E’ la nostra identità che puoi lasciare in gioventù per migliori fortune altrove, ma dopo non vedi l’ora di ritornarci, per chiudere così quel ciclo indissolubile che ti lega al luogo. “Uomo di provincia, città di provincia, definirsi provinciale” queste espressioni dimostrano che la provincia italiana è da sempre un microcosmo di usi e costumi, di mille realtà fatte di persone, dialetti, campanili e sagre.

Nel romanzo Hanno tutti ragione di Paolo Sorrentino c’è una bella frase: “Una stanza buia è la provincia. Come ti muovi ti muovi, vai a sbattere sempre contro le stesse persone, che conosci da quando sei nato”. Forse si arriverà a decretarne per davvero la fine istituzionale. Ma sarà impossibile cancellare le differenze, quel senso di appartenenza e fierezza, tra un bolognese e un modenese o un livornese ed un pisano, che costituiscono l’essenza e le contraddizioni della nostra italianità.

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