La lotta della ricerca contro la sclerosi multipla prosegue senza sosta. Un autotrapianto di cellule staminali può, in alcuni casi, fermare per un lungo periodo di tempo la progressione della malattia secondo quanto emerge dai risultati di uno studio condotto a due ricercatori dell’Azienda ospedaliero universitaria di Careggi di Firenze e dell’Imperial college di Londra.
La ricerca, pubblicata sulla rivista Jama neurology, ha analizzato i dati di 281 pazienti affetti da sclerosi multipla, sottoposti ad autotrapianto di cellule staminali del sangue tra il 1995 ed il 2006 in 15 centri di 13 paesi, e seguiti dopo la procedura per una media di quasi 7 anni. Lo studio ha mostrato che nel 46% dei pazienti, generalmente selezionati per una malattia particolarmente aggressiva e scarsamente sensibile alle terapie precedentemente somministrate, si assisteva ad un arresto della progressione della disabilità a 5 anni dal trapianto e, in una minore percentuale di pazienti, addirittura ad un miglioramento dei sintomi.
Gli studiosi sottolineano tuttavia che “il trapianto è una procedura non scevra da rischi e che per questo va riservata a pazienti selezionati”. Nello studio pubblicato su Jama Neurology, 8 pazienti sono deceduti nei primi 100 giorni dal trapianto; il rischio di complicanze fatali “è però più modesto nei pazienti trapiantati in fase precoce di malattia”. “Negli ultimi 5 anni la mortalità riportata al registro europeo è dello 0,34%, per effetto della migliore selezione dei pazienti e dell’evoluzione della tecnica trapiantologica” spiega Riccardo Saccardi, ematologo dell’Azienda di Careggi che ha coordinato il versante trapiantologico dello studio.
“L’autotrapianto – continua Saccardi – è una procedura largamente utilizzata da circa 30 anni per il trattamento di alcuni tumori del sangue e del sistema linfatico”. “La procedura – prosegue – consiste nel prelievo di cellule staminali del sangue mediante una chemioterapia e la somministrazione di farmaci che fanno uscire le cellule staminali dal midollo osseo per andare nel sangue. Il paziente viene quindi sottoposto ad una chemioterapia ad alte dosi che ha il compito di distruggere il sistema immunitario difettoso; subito dopo le sue cellule staminali vengono re-infuse per via endovenosa come una normale trasfusione. Il sistema immunitario si rigenera a partire da queste cellule senza il difetto che causava gli attacchi della malattia”. “Sapevamo da altri studi – spiega Paolo Muraro dell’Imperial college di Londra – che questo trattamento può essere molto efficace nel breve e medio termine (2-4 anni) ma nel lungo termine (5 anni e più) vi erano solo studi in piccoli numeri di pazienti. Con questo studio abbiamo raccolto evidenze che sostengono un effetto duraturo del trattamento”.
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