Come in tanti hanno fatto, anch’io avevo ripubblicato sui social media la lettera di Michele, con un breve sfogo. Ma non era mia intenzione volerne scrivere. Troppo delicato, troppo scivoloso il dramma umano, nonostante l’evidente politicità di una lettera scritta con lucidità e pregna di accuse scandite senza ambiguità. Non me l’ero sentita. Poi è arrivato il post di Federica Bianchi. La quale sul sito de L’Espesso polemizza, entrando a gamba tesa, con quelli che si sono identificati in lui. Con quanti “hanno usato una lettera scritta da un ragazzo depresso e arrabbiato per giustificare le proprie debolezze e i propri fallimenti”. E sono saltato sulla sedia. Non è a Michele che mi voglio riferire qui dunque: voglio scrivere su chi ha sentito l’urgenza di precipitarsi alla tastiera per ribadire che noi giovani dobbiamo farci andar bene una società che ci esclude.

Non è la prima volta che si fanno beffe di noi. Esponenti ben più tristemente noti si erano già distinti per minimizzare i nostri problemi o additarci come degli eterni rompipalle. Lo sfondo ideologico è infatti lo stesso che spinse Elsa Fornero a chiamarci choosy (schizzinosi). È identico a quello per cui Michael Martone si sentì autorizzato a definire sfigati quelli che si laureano in ritardo. È tale e quale a quello che più di recente ha indotto Giuliano Poletti – e qui l’invito di Federica Bianchi a comprarsi un biglietto aereo per andarsene è tragicamente simile alla gaffe del ministro – a desiderare che i giovani tolgano il disturbo, perché “alcuni è meglio non averli tra i piedi“.

L’autrice ne fa una questione di coraggio. C’è da attrezzarsi, la vita è dura. Il mondo è caratterizzato dalla scarsità, non dall’abbondanza. La felicità è frutto di uno sforzo, non arriva da sola. E poi abbiamo più opportunità rispetto ai nostri genitori: la rete, le frontiere aperte (finché durano), la possibilità di dormire sul divano di qualche amico. Si ha da “imparare a vivere”, insomma. Altro che lamentarsi. Bianchi insinua contestualmente quel pericoloso giochetto psicologico per cui c’è sempre qualcuno più sfortunato di te che ce l’ha fatta o che non ha gettato la spugna. Quindi, pedalare. Il post arriva lì dove neanche il libro di autostima new-age più fasullo: a dirci che potendo permetterci il lusso di vivere con poco, qualsiasi angolo del mondo dotato di internet potrà farci felice.

Il fatto è che ci sarà sempre qualcuno più sfortunato di noi a cui far riferimento e su cui far leva per indurci ad accettare le condizioni del presente. Questa sarà sempre la scusa per farci andar bene assetti sociali che non sono naturali, ma che sono imposti, forgiati da decreti legge, finanziarie, delocalizzazioni. L’autrice dimentica che la società non è neutra: ogni condizione dell’esistente è politica. È fatta di decisioni, di potere. Di situazioni che potrebbero essere altrimenti. Di variabili economiche che favoriscono i pochi a danno dei molti. La questione, quindi, non è nemmeno la scarsezza delle risorse.

A queste persone – per cui evidentemente i dorati anni 90 di “settimane bianche e paninari” non sono mai finiti – non basteranno i dati di Piketty sulla disuguaglianza, la sfacciataggine di una classe politica che governa sistematicamente favorendo gli interessi di chi ha troppo, la rapacità ormai sotto gli occhi di tutti di banchieri e palazzinari: non serviranno tutte le evidenze empiriche del mondo a dimostrare che non è una questione di coraggio. Che il lavoro manca per davvero e quello che c’è è indegno. Che di Bebe Vio non ce ne possono essere milioni.

Queste persone hanno deciso che siamo scarsi e indolenti. È l’ideologia dell’eterna promessa che ci rende ricattabili, l’ideologia della carota che inseguiamo senza mai poter raggiungere. D’altronde, si tratta di premesse in linea con l’epoca in cui viviamo. L’individuo deve percepire se stesso come un’impresa, come un capitale da valorizzare continuamente. Si predica l’interiorizzazione di quei parametri che vanno bene al mercato. Se qualcosa non va è perché non andiamo abba”stanza bene e dobbiamo migliorarci.

Ma si badi bene che anche quelli che, come me, se ne sono andati dall’Italia e hanno costruito un loro percorso non sono per nulla contenti di come vanno le cose. In molti vorremmo tornarci, nel nostro paese. Vorremmo vedere crescere i nostri figli dove siamo cresciuti noi e amare quelle terre che noi chiamiamo casa e che per loro non sono altro che l’esotico luogo di provenienza di mamma e papà. Sciagurati sono i paesi le cui classi dirigenti invitano i propri giovani ad andarsene per sbarazzarsi di intelligenze e corpi che andrebbero invece richiamati e valorizzati. Se torneremo, in tanti lo faremo per fare i conti con questo establishment che ci ha costretto ad andare via.

Almeno Enrico Mentana, nel suo predicozzo alla giovane precaria, aveva avuto il buon gusto di incoraggiarla ad organizzarsi, ad assediare i palazzi del potere, piuttosto che ridurre a questioni individuali ciò che è uno scempio collettivo. Per Federica Bianchi invece, è solo una questione di ripassare un po’ di Osho Rainesh.

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