In una lunga notte di tregenda elettorale, l’America si consegna a Donald Trump per i prossimi quattro anni, gli affida la valigetta nucleare e gli regala un Congresso al suo servizio, tutto repubblicano. L’ondata di rabbia e populismo del magnate e showman travolge – proprio quand’era più necessario – il sistema di bilanciamento dei poteri voluto dai Padri Fondatori degli Stati Uniti.

Hillary Clinton esce nettamente sconfitta dai Grandi Elettori. Come nella notte della Brexit, vince la scelta opposta a quella pronosticata da sondaggi, esperti e allibratori: la rabbia e la protesta si confermano più forti della razionalità e della competenza. Se l’America esce dal voto divisa, l’Europa e il Mondo ne escono impauriti. E se l’America ha istituzioni democratiche forti e una Costituzione solida per superare la bufera, l’Unione europea non le ha: l’effetto domino, dopo la Brexit e l’elezione di Trump, può farla vacillare e crollare, specie se dovesse tradursi nell’affermazione di altri populismi, in Francia, nel Benelux, in Germania, magari in Italia.

I mercati hanno reazioni da panico. Il dollaro va giù, l’oro va su. E ovunque ci s’interroga sull’impatto che l’elezione del magnate avrà, con tutte le sue incognite e contraddizioni economiche e di politica estera.

La mappa elettorale non esprime a pieno la spaccatura degli Stati Uniti semplificata dal cromatismo rosso/blu degli Stati repubblicani e democratici, senza tenere conto delle divisioni etniche, di genere e di censo che venano la società. La scelta di Trump sembra il colpo di coda d’un America maschia e bianca, frustrata da otto anni di un presidente nero e forse irritata dall’idea di cedere il potere a una donna. Ma non è solo questo, non sta tutto qui: c’è la ribellione al globalismo; c’è il mito eterno del ritorno all’età dell’oro; c’è la fascinazione dell’apparenza e della brillantezza – magari ruvida, volgare, eccessiva – sulla sostanza e la concretezza; c’è una trasformazione, demografica, ma anche ideologica, del partito repubblicano, che esce dall’alveo di Lincoln e di Theodore Roosevelt e accoglie nelle proprie fila blue collars e classe media, democratici delusi.

Quando la conta dei voti era appena iniziata e la notte non era ancora avanzata verso il suo epilogo, Barack Obama faceva sapere: “Comunque vada, l’America resta una grande Nazione”. E questa resta una pagina di democrazia nella storia di un grande Paese, che è sempre capace di cambiare, non sempre andando nella direzione della storia.

La notte parte con i colori della speranza per la candidata democratica, sostenuta da tutta una serie di segnali considerati per lei positivi, come l’alta affluenza. Ma vira in modo deciso, determinante, al rosso repubblicano quando i tre grandi Stati in bilico, la Florida, l’Ohio e la North Carolina, finiscono l’uno dopo l’altro, nel giro di un’ora, nel paniere di Trump.

Da quel momento, l’ultima ridotta democratica si riduce nel MidEst tra Wisconsin e Michigan. Ma neppure lì Hillary tiene le posizioni: gli Stati manifatturieri delle fabbriche perdute seguono l’illusione del ritorno dei posti di lavoro promesso da Trump. A tratti, l’andamento dello spoglio ha echi delle elezioni del 2000, quelle rimaste in bilico per settimane tra George W. Bush e Al Gore; ma tutto si risolve poco dopo la mezzanotte di New York, che non viveva una serata elettorale così, con tutti e due i candidati nella Grande Mela, dal 1944.

“E’ una grande notte per l’America”: il team di Trump assapora la vittoria prima ancora che sia ufficiale. I sostenitori della Clinton sono, invece, sotto shock. Nell’Election Day che affida la valigetta atomica a uno showman dal tweet impulsivo, Massachusetts e California – che votano Clinton – danno il via libera alla legalizzazione della marijuana per uso ricreativo. Nel Nebraska, che vota Trump, torna, invece, la pena di morte: il ripristino della pena capitale, là dove il boia non colpisce dal 1997, passa a un anno dalla decisione di sospenderla.

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