di Vitalba Azzollini* per SpazioEconomia

Le c.d. quote di genere (“rosa”, in maniera impropria) sono da anni tema di dibattito, e non solo perché qualche amministratore locale le porta alla ribalta, come accaduto a Roma nei giorni scorsi. Se in modo pressoché unanime si concorda sul fatto che esse consentano di conseguire la gender parity in termini numerici, non ugualmente unanime è l’opinione che siano il mezzo migliore per operare un cambiamento culturale in materia di parità femminile.

Il sindaco di Roma, cui si è fatto cenno, ha dichiarato in particolare che la misura delle quote “nasce per combattere la discriminazione femminile, ma diventa ancora più discriminatoria”. Premesso che le donne non costituiscono un “gruppo minoritario” in favore del quale possa in qualche modo parafrasarsi la celebre dissenting opinion del giudice Scalia (“We are just one race here. It is American”) con un forzato parallelismo tra questione razziale e questione di genere, l’affermazione che le quote siano “discriminatorie” può essere condivisa per molteplici ragioni.

Se è discriminatorio ogni strumento finalizzato non a rimuovere i paletti che ostacolano il raggiungimento di determinati posti da parte di taluni soggetti, bensì ad attribuire loro direttamente i posti stessi, appare palese che le quote possano definirsi come tali. Esse discriminano, innanzitutto, le donne stesse, non solo in quanto le relegano in una sorta di “riserva protetta”: le norme che conferiscono a esponenti femminili il privilegio di posti numericamente prefissati in ruoli apicali trascurano la base e le posizioni intermedie, quindi le fasce di lavoratrici più “deboli”, cioè più meritevoli di tutela rispetto a quelle aventi incarichi più elevati.

In secondo luogo, le quote in favore delle donne rischiano di discriminare a propria volta persone ancor più discriminate (dati Unar, 2014: su 71,9% azioni discriminatorie rilevate sull’accesso al lavoro, il 47,8% riguardano l’età, il 37,7% la razza e l’etnia, il 6,5% il genere il 5,6% la disabilità). Inoltre, l’imposizione “quantitativa” a determinate aziende di rappresentanti di un certo genere in posizioni di vertice non è a volte conciliabile con l’esigenza di scelte “qualitative”, sempre più sentita in ogni contesto al di là di qualunque appartenenza.

In altri termini, il merito e la competenza talora non sono distribuiti in percentuali equanimi tra i sessi, come si pretende di fare con certe cariche: di conseguenza, l’obbligo di scegliere esponenti del genere sottorappresentato potrebbe penalizzare – discriminando, appunto – individui più meritevoli, ma “colpevoli” di fare parte del genere rappresentato maggiormente. A ciò si aggiunga che l’obbligo delle quote sfavorisce i soggetti economici cui si applica, limitando la libertà di chi si assume il rischio di impresa, ma viene privato della facoltà di organizzare i fattori della produzione come meglio gli aggrada.

Infatti, la riserva coatta di posti prevista dalla legge comprime meccanismi decisionali che devono restare affidati a logiche discrezionali; per altro verso, potrebbe addirittura sortire effetti negativi in quanto percepita dal mercato come elemento distorsivo nella scelta societaria delle candidature più qualificate. Ancora, se società che privilegiano la diversità di genere presentano circa il 15% di possibilità in più di produrre profitto rispetto alla media nazionale del settore di appartenenza, tali possibilità si elevano al 35% in più se viene favorita la diversità etnica/razziale (Diversity Matters 2016, McKinsey).

Nonostante in Italia le quote “rosa” abbiano una valenza temporale normativamente limitata, se ne dibatte spesso come una misura da rendere strutturale: tuttavia, un provvedimento che ne sancisse l’obbligo in assenza di una scadenza temporale o di un obiettivo prefissato – raggiunto il quale la misura cessi di essere applicata – oltre a essere costituzionalmente dubbio, legittimerebbe una discriminazione femminile indefinitamente privilegiata.

E’ stato scritto che le quote di genere sono servite “per far saltare un chiavistello”: tuttavia, la legge non ha il compito di incidere su pregiudizi di tipo culturale, psicologico o di altra natura, mediante interventi di “ingegneria sociale”. Lo strumento delle quote sembra piuttosto sancire, da un lato, la rassegnata resa al fatto che in Italia i citati criteri di merito e competenza non possano spontaneamente essere adottati nella scelta delle persone migliori, al di là del sesso di appartenenza; dall’altro, l’invadenza del legislatore nazionale che pretende di operare cambiamenti sociali mediante automatismi percentuali predefiniti, scoraggiando la valutazione comparativa di ogni diversità – non solo di quella di genere – svolta in base alle caratteristiche individuali e alle specificità dei singoli contesti.

A quest’ultimo riguardo, è opportuno rilevare come in sede Ue – al fine di contrastare il “fenomeno della mentalità di gruppo” attraverso la rappresentazione di “una varietà di punti di vista e di esperienze” – si sta affermando il principio della diversificazione negli organi di gestione per “età, sesso, provenienza geografica e percorso formativo e professionale”, con l’imposizione non di quote riservate, ma di obblighi di pubblicità aventi a oggetto le motivazioni delle scelte effettuate (direttiva 2013/36/Ue in tema di enti creditizi e imprese di investimento e direttiva 2014/65/Ue in materia di mercati degli strumenti finanziari).

La valorizzazione delle molteplici diversità – incentivata dalla trasparenza e, quindi, dal sindacato pubblico circa le ragioni di determinate designazioni in ruoli decisionali – potrebbe efficacemente contribuire a rimuovere in modo sostanziale, e non quale mero effetto formale di quote percentuali, gli ostacoli culturali che si frappongono al riconoscimento di una parità effettiva.

In conclusione, se la prescrizione di posti apicali in favore delle donne è servita a stimolare utili discussioni sull’importanza del gender balance, tuttavia, per i motivi sopra esposti, le lenti “rosa” delle quote non attenuano i rischi di meccanismi normativi legati al sesso. L’equilibrio che serve per le scelte migliori non è solo questione di equilibrio di genere e, di certo, non si raggiunge ex lege.

* Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono l’istituzione per cui lavora.

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