La barba di Bin Laden e quella di Rasputin, i baffetti di Hitler e i mustacchi di Stalin: i volti dei cattivi sono indimenticabili. Al contrario dei buoni. Come fosse il vero Oskar Schindler o che faccia abbiano i Nobel per la Pace Kofi Annan e Rigoberta Menchú, pochi lo ricordano. La colpa è del cervello, come svela una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca pubblicata da poco sulla rivista scientifica Plos One.

La nostra memoria infatti registra soprattutto le “facce cattive”, in modo che noi, riconoscendole, possiamo stare in allerta. “Un meccanismo neurobiologico di sopravvivenza, che si basa su pregiudizi irrazionali e che si tramanda fin dall’uomo di Neanderthal” spiega a ilfattoquotidiano.it Alice Mado Proverbio, professoressa di Neuroscienze che ha guidato lo studio. L’esperimento rientra nel filone della “teoria della mente”. “Si chiama così quella teoria secondo cui, analizzando l’aspetto di persone che neanche conosciamo, l’espressione facciale, la postura, il tono della voce, gli attribuiamo, in base a dei pregiudizi automatici, uno stato mentale, emotivo e pure caratteristiche morali”.

“I pregiudizi negativi restano impressi nella memoria”
Diciassette studenti, seduti in una cabina semioscura isolata acusticamente, hanno guardato una sequenza di 200 volti, ciascuno preceduto da una descrizione inventata, indipendente dall’etnia e dal valore estetico della persona. “Abbiamo creato artificialmente dei pregiudizi” continua Alice Mado Proverbio. “Ha fatto di tutto per far sì che l’amica venisse lasciata dal fidanzato e adesso gode infinitamente”, “odia a morte gli extracomunitari” e “butta sempre i sacchi di spazzatura nel fiume del suo paese” erano alcune delle frasi che presentavano i “cattivi”. “Cucina dolci buonissimi ai nipotini” e “ha difeso un compagno di scuola vittima di bullismo” precedevano due volti “buoni”. “Gli elettrodi collegati alla testa degli studenti hanno mostrato che c’è un’attività più intensa nella corteccia prefrontale di fronte alle facce cattive, quelle cioè associate a un comportamento immorale, violento, socialmente pericoloso” rivela Proverbio.

Dopo 45 minuti agli studenti sono stati mostrati i soliti 200 volti mescolati però a 100 nuove facce, senza presentazioni. “Dovevano indicare con un pulsante se li avevano già conosciuti. Abbiamo scoperto che vengono memorizzate in modo più approfondito le facce cattive. Il segnale neurale alla base del ricordo è più solido, con più regioni cerebrali coinvolte, se la faccia è cattiva”. Il ricordo del primo “incontro” con i volti “cattivi” non svanisce perché è conservato dalle regioni limbiche e dell’ippocampo. Ecco perché un pregiudizio morale negativo, anche se inventato, è duro a morire.

“Paura dei migranti? Stessi meccanismi dell’uomo primitivo”
La docente che ha condotto lo studio commenta: “Sono meccanismi tramandati dall’uomo primitivo, che servivano alle varie specie umane che convivevano con grande rivalità. Bastava non essere del gruppo per venire ucciso. E’ importantissima la consapevolezza di questi meccanismi, soprattutto oggi che c’è il revival del tema del migrante che ci invade. Siamo ritornati come l’uomo primitivo, quando ci sono queste migrazioni di popoli si ritorna agli stessi vecchi meccanismi neurali. E sono le persone più deboli, fragili, a mettere in atto questi meccanismi irrazionali di difesa”.

Secondo Proverbio, anche Hollywood gioca con certi pregiudizi fisici per creare i cattivi dei film. Da Alex di Arancia Meccanica a Hannibal Lecter nel Silenzio degli Innocenti, da Lord Voldemort in Harry Potter a Freddy Krueger in Nightmare, passando per Gollum nel Signore degli Anelli, Bane de Il Cavaliere Oscuro-Il ritorno e Jack Torrance in Shining (ma la lista è lunga), i cattivissimi hanno tutti un tratto somatico in comune: gli occhi chiari. “Ancora oggi la faccia del nazista, l’occhio di colore chiaro, a prescindere dal contesto, significa automaticamente personaggio cattivo – conclude Proverbio – Il nazismo è stato un trauma spaventoso per tutta l’umanità e tramite questi pregiudizi è stato raccontato a quelli che non erano presenti anche nelle generazioni successive” .

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