La bordata contro l’euro lanciata dalle colonne del Financial Times dal premio Nobel Joseph Stiglitz piomba su un’Europa ancora disorientata dall’addio della Gran Bretagna. Un’Europa dove le spinte centrifughe acquistano forza, come dimostrano da ultimo le avanzate (o le ritirate) in ordine sparso sul tema del trattato commerciale con gli Usa, il Ttip. La tesi di Stiglitz, un euro strutturalmente debole che zavorra l’economia europea e che quindi sarebbe meglio abbandonare o dividere in due – uno per il Sud e uno per il Nord – è destinata a rinfocolare l’eterno dibattito sui pro e i contro moneta unica.

La posizione del premio Nobel è stata per la verità accolta con molte perplessità tra gli altri economisti e Paul De Grauwe, una delle massime autorità in materia di unioni monetarie, bolla l’ipotesi del doppio euro come “fantascienza“. Pregi e difetti di un’unica valuta per Paesi con caratteristiche economiche differenti sono da tempo al centro di studi e valutazioni non sempre concordanti. Tra i più noti quello condotto nel 1961 dall’economista e premio Nobel Robert Mundell, intitolato “teoria delle aree valutarie ottimali”, che enfatizza i costi che comporta l’adesione a un’unione monetaria e la rinuncia alla gestione di una propria politica monetaria. Il punto è che senza possibilità di manovrare i tassi di cambio (e dunque svalutare la moneta per rendere, almeno temporaneamente, i propri prodotti più competitivi) le crisi di domanda sono destinate ad abbattersi direttamente su occupazione e salari.

In assenza di flessibilità salariale o della possibilità di spostarsi facilmente dove c’è maggiore offerta di lavoro, diventa difficile per un Paese superare la fase di impasse. Della questione si occupò nel 1991 anche un altro premio Nobel, Paul Krugman, e nel 1990 la commissione Ue diffuse il rapporto “One Market, One Money” in cui, comprensibilmente, si poneva però l’accento sui benefici di un’unica moneta. Quel report servì da base per costruire l’edificio della moneta unica. Comunque la si pensi, è difficile affermare che finora l’euro abbia aiutato la crescita economica. Questo anche prima della crisi. L’incremento del pil dell’area euro tra il 1992 e il 1998 è stato infatti esattamente lo stesso del periodo 1999-2006: +1,5% l’anno circa.

Stiglitz sposta però la sua analisi sul periodo che va dal 2008 ad oggi, e di fronte alla deludente performance dell’economia europea afferma “l’euro avrebbe dovuto portare prosperità e accrescere la solidarietà tra gli stati membri. E’ successo esattamente l’opposto”. Quindi, è la sua conclusione, “è arrivato il momento di ripensare alla radice la struttura della moneta unica ipotizzando anche il suo smantellamento”. Secondo il premio Nobel l’euro è nato debole, la sua architettura è sbagliata all’origine e politiche economiche errate, troppo improntate all’austerità, hanno peggiorato la situazione. Sebbene secondo Stiglitz l’euro sia di per sè un problema, l’economista concede che con alcuni correttivi (unione bancaria, assicurazione comune sui depositi, maggiore solidarietà tra paesi ricchi e poveri) le cose potrebbero migliorare. Il premio Nobel è però pessimista sulla volontà politica dei Paesi membri di procedere in questa direzione. Se alla fine si scegliesse il divorzio consensuale Stiglitz suggerisce una fase di transizione con due euro. Uno per i paesi economicamente più forti del Nord Europa, un altro, con cambio più debole, per i paesi del Sud. Anche in questo caso non mancherebbero i problemi, a cominciare dalla ridenominazione dei debiti. Tuttavia, con una buona dose di volontà e impegno attraverso questa strada la separazione potrebbe non essere così traumatica.

Il professor Gustavo Piga, che insegna economia all’università Tor Vergata di Roma, condivide le considerazioni di Stiglitz sugli errori nelle politiche economiche ma ridimensiona il ruolo dell’euro nella genesi delle difficoltà del Vecchio Continente. “La moneta unica è spesso usata come un capro espiatorio“, spiega Piga, “ma la verità è che un’area che adotta una sola valuta può funzionare soltanto se c’è una forte solidarietà tra le aree ricche e quelle meno prospere. Gli Stati Uniti insegnano, il dollaro è stato per lungo tempo un generatore di tensioni e guerre civili. Soltanto quando si è introdotto un meccanismo di trasferimenti automatici tra le diverse aree della confederazione il sistema ha cominciato a funzionare bene e a generare vantaggi per tutti. Se ci sono sistemi di questo tipo gli choc che colpiscono i diversi paesi in modo asimmetrico possono essere gestiti”.

Il problema è la politica più che la moneta. La domanda chiave per i paesi euro è capire se valga la pena aspettare che si compia questa “rivoluzione”. Non è però detto che abbandonare l’euro cambierebbe radicalmente le cose. “Stiglitz sbaglia”, ragiona Piga, “quando pensa che l’uscita dall’euro produrrebbe di per sé un mutamento nelle politiche economiche dei singoli paesi. Se ci sono strategie improntate sull’austerità è perché esistono blocchi sociali e politici che le sostengono. E questo vale per tutti i paesi membri. Quello che è davvero importante”, continua il professore, “è che si rafforzino quelle forze di opposizione portatrici di una visione diversa in merito alle politiche economiche da adottare in un’unione monetaria”. Piga esprime perplessità anche sull’ipotesi dell’euro a due velocità. “Una volta che certe forze centrifughe vengono innescate”, avverte il professore, “è illusorio pensare che possano essere gestite e controllate. Se ci sarà una spaccatura dell’euro sarà definitiva e profonda e difficilmente è ipotizzabile un passaggio non traumatico ad un’Unione europea senza moneta unica”.

Anche Lorenzo Codogno, che oggi insegna alla London School of Economics ed è stato in passato direttore generale del Tesoro, non condivide le critiche di Stiglitz sull’euro in quanto tale. “A mio parere”, afferma Codogno, “è sbagliato affermare che anche con politiche diverse l’euro sia comunque destinato a fallire poiché costruito male. Le critiche di Stiglitz alle scelte fatte dopo la crisi le considero invece giuste”. Infatti, spiega l’economista, “è prevalsa la logica dell’ognuno per sé senza nessuna forma di solidarietà tra paesi e questa è stata senza dubbio un’impostazione sbagliata che ha prodotto danni”. “Purtroppo”, nota Codogno, “al momento non ritengo ci sia in Europa una volontà di cambiare le politiche economiche. In particolare la Germania appare particolarmente intransigente, anche perché tutto è bloccato in vista delle elezioni del settembre 2017”.

Qualche segnale di speranza però esiste, concede Codogno: “Il documento presentato dai cinque presidenti (Jean Claude Juncker, Donald Tusk, Mario Draghi, Martin Schultz, Jeroen Dijsselbloem) intitolato “Completare l’Unione politica e monetaria dell’Europa” è piuttosto timido ma è senza dubbio un passo nella giusta direzione. L’alternativa potrebbe essere molto problematica. Codogno ritiene che il Nobel commetta un errore quando afferma che si potrebbe abbandonare l’euro in modo relativamente indolore. I problemi tecnici sono tanti e notevoli, spiega Codogno ma soprattutto “il solo parlarne è pericoloso. Finché è un dibattito tra accademici non accade nulla ma appena l’ipotesi venisse anche lontanamente presa in considerazione da qualche politico si alzerebbe immediatamente il livello di rischio percepito dai mercati. Gli operatori economici reagirebbero immediatamente, si scatenerebbero corse agli sportelli e, a cascata, i default di debiti sovrani e privati”.

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