La storia di Sara Di Pietrantonio, la 22enne uccisa carbonizzata dal suo ex e ritrovata domenica all’alba alla Magliana a Roma, è scioccante. Ad aggiungersi allo sgomento pubblico è una colpa che appare ancora più grave, perché non di un singolo e folle criminale lontano da noi, ma nostra, una colpa collettiva: quella dell’indifferenza dei passanti, i quali, pur avendo vista la ragazza chiedere aiuto, non si sono fermati. A generare il senso di colpa collettivo è il pm che sottolinea: “Sara ha chiesto aiuto a diversi automobilisti, ma nessuno si è fermato”. Penso che il significato dato a queste parole dalla maggior parte delle tv e dei giornali sia solo del sensazionalismo. Niente di più. Uno sgradevole sensazionalismo. E spero che non fossero queste le intenzioni del pm nel pronunciarle. Quella dell’orribile indifferenza dei passanti, o apatia sociale, è una teoria che torna periodicamente sui giornali, da sempre, ogni volta che avviene una tragedia in pubblico.

Ricorderete un episodio celebre del 2010, quello di una donna colpita a morte con un pugno nella metro di Roma, nell’indifferenza dei passanti. Ma anche più recentemente, circa un mese fa un marocchino di 39 anni è stato ucciso nell’indifferenza dei passanti. Abbiamo poi crude scene dall’estero, che ci arrivano in questi giorni, di una donna americana picchiata nell’indifferenza dei passanti e di un’altra donna, cinese, caduta a terra con la moto nell’indifferenza dei passanti. Episodi di questo tipo capitano, purtroppo, di continuo. Ogni volta riecco emergere nei talk show e sui giornali il quadro di una generazione fatta di individui egoisti e insensibili, induriti dalla vita moderna, specialmente nelle metropoli: la società fredda, indifferente ai bisogni e alle richieste. Quindi è d’obbligo chiederci: siamo tutti dei mostri, dal cuore di cemento come le grandi città che abbiamo creato e che ci hanno rubato l’anima, oppure c’è una spiegazione meno dolorosa a questo assurdo comportamento collettivo che ricorre, tragedia dopo tragedia?

Gli psicologi sociali, negli anni 60, sono stati i primi a cercare una risposta a questa apatia collettiva, dandogli anche un nome: effetto bystander (effetto spettatore). Il tutto è partito da un caso di cronaca simile a quello di cui ci troviamo a parlare oggi. Alle tre di notte del 13 marzo 1964, nel quartiere di Queens a New York, una giovane donna, Catherine Genovese (italo-americana), era stata aggredita e uccisa nella strada di casa mentre tornava dal lavoro. La notizia di un omicidio, in una metropoli come New York, avrebbe avuto poco spazio sui media se non fosse emerso un particolare, scoperto durante le indagini, che aveva lasciato tutti sbigottiti: l’aggressore aveva inseguito e colpito Catherine per tre volte, nell’arco di una mezz’ora, prima di ridurla al silenzio e nientemeno che trentotto vicini di casa avevano assistito a tutta la scena dalle finestre senza alzare un dito, nemmeno per chiamare la polizia.

Ovviamente il New York Times uscì con un lungo articolo in prima pagina, destinato a suscitare – come avviene oggi – un polverone di commenti e discussioni. Il pezzo diceva: “Per oltre mezz’ora, trentotto cittadini onesti e rispettabili del Queens sono stati a guardare un assassino inseguire e pugnalare una donna nei Kew Gardens in tre successivi assalti”. I giornalisti, gli opinionisti e i testimoni oculari interrogati cercarono di dare delle spiegazioni chiamando in causa la paura o il desiderio di non essere immischiati. Anche oggi il sostituto procuratore di Roma, Maria Monteleone, ha chiamato in causa il coraggio in merito all’assassinio di Sara: “Ci vuole coraggio, se si vedono cose strane è dovere chiamare il 113” (la gravità dell’omissione di soccorso ovviamente non è neanche in discussione, in questo post sono in discussione le cause che in alcuni casi possono generarla. Vedremo anche delle soluzioni sul finale).

Tali spiegazioni però non reggevano affatto: una semplice telefonata anonima alla polizia avrebbe potuto salvare la vita della ragazza in quella notte americana, senza il minimo rischio per il testimone. La spiegazione doveva essere un’altra. Quale sarebbe allora la soluzione? Due psicologi di New York, Bibb Latané e John Darley, trovarono la risposta. Nessuno era intervenuto non, come si era sempre detto, benché ci fossero trentotto testimoni oculari, ma proprio per questa ragione, perché c’era tanta gente a guardare. Secondo Latané e Darley, ci sono almeno due ragioni per cui chi assiste a un caso d’emergenza difficilmente interviene se ci sono o passano diverse altre persone. La prima è molto semplice: la responsabilità personale di ciascuno si diluisce e così, mentre ognuno pensa che sia già intervenuto o stia per intervenire qualcun altro, nessuno fa nulla.

La seconda ragione è psicologicamente più sottile, fondata sul principio della riprova sociale (Cialdini, 2001): qui entra in gioco l’effetto d’ignoranza collettiva. Molto spesso succede che un’emergenza non sia immediatamente riconoscibile. I colpi che si sentono dalla strada sono spari o tubi di scappamento? La confusione che si sente nella casa accanto è un’aggressione o un litigio particolarmente rumoroso fra marito e moglie? La persona che mi corre incontro vuole aiuto o vuole aggredirmi? Che cosa sta succedendo? In momenti di incertezza come questi, la tendenza naturale è guardarsi intorno per vedere come si comportano gli altri e capire da questo se si tratti o meno di un’emergenza. Il problema però è che anche tutti gli altri che osservano l’evento probabilmente sono in cerca di una spiegazione osservando il comportamento altrui. E siccome, in pubblico, tutti vogliono apparire posati e tranquilli, probabilmente ci si limita a brevi occhiate di sfuggita.

La conseguenza è che ognuno vedrà che nessuno degli altri si scompone e non interpreterà l’evento come un caso d’emergenza. Ma basterà che uno si fermi ed ecco che si creerà il capannello di persone, quello delle code di curiosi sull’autostrada o del “circolare gente, non c’è nulla da vedere qui” o ancora del “fate spazio, facciamolo respirare”. Ecco come la stessa società di mostri insensibili diventa improvvisamente una società solidale e (a volte fin troppo) premurosa. I due ricercatori fecero degli esperimenti che confermarono la loro teoria. Conoscendo questi processi psicologici quindi, da oggi, quando sarete nel dubbio avvicinatevi sempre al soggetto e chiedete se ha bisogno di aiuto; se vi è proprio impossibile avvicinarvi o fermarvi, chiamate sempre il 113, anche nel dubbio che l’abbia già fatto qualcuno. Un’eventuale doppia chiamata non darà fastidio alle forze dell’ordine e ai soccorsi: hanno un centralino apposta.

Appreso questo, ed immaginando di essere noi stessi nella situazione di pericolo, cosa possiamo fare per essere aiutati ed evitare il compiersi di un reato gravissimo – dal punto di vista morale oltre che penale – come quello dell’omissione di soccorso da parte di più spettatori? Dagli esperimenti e dai casi di cronaca emerge che grida o lamenti non servono: possono richiamare l’attenzione ma non bastano a far capire che c’è una vera emergenza. Bisogna fare qualcosa di più che segnalare il bisogno d’aiuto, si devono eliminare tutte le incertezze sul tipo di aiuto e su chi deve darlo. Il consiglio dei ricercatori è di isolare un singolo individuo dalla folla: “Lei, signore con la giacca blu, chiami un’ambulanza”. Con quest’unica frase quella persona viene messa nel ruolo di “soccorritore”: sa che c’è un’emergenza, sa che tocca a lui fare qualcosa e non ad altri e sa esattamente che cosa fare. Tutti i dati sperimentali disponibili indicano che il risultato di una richiesta formulata in questo modo sarà un’assistenza pronta ed efficace.

In generale, quindi, la strategia migliore è ridurre le incertezze degli astanti, con la richiesta più precisa possibile, rivolta a un singolo e non genericamente al gruppo: il compito deve essere assegnato a qualcuno, altrimenti è troppo facile per ciascuno pensare che debba farlo, stia per farlo o l’abbia già fatto un altro. Spero che queste istruzioni non serviranno mai a nessuno di noi, ma il femminicidio, e le aggressioni in generale, sono un problema reale e gravissimo. Per limitarlo, credo tuttavia si debbano cercare le cause reali che lo scatenano, punire chi omette di soccorrere le vittime e non perdere tempo allargando il problema ad un’ipotetica, e per fortuna inesistente, società fredda e indifferente delle sofferenze altrui.

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