La sentenza che ha riconosciuto lo  stato norvegese colpevole di aver violato i diritti umani di Anders Breivik, il responsabile degli attentati di Utoya del 22 luglio 2011, costati la vita a 69 persone, ha lasciato a bocca aperta molti. Che succede a questi norvegesi? Non bastano il buonismo, le caramelle e la Playstation delle carceri scandinave. No, ora pure i suoi diritti umani vanno tutelati? Commenti di questo tenore, non provengono da commentatori giustizialisti del sud Europa ma da un rispettabile quotidiano dei vicini svedesi, altro paese ben noto per la tutela dei diritti umani, lo Svenska Dagbladet dove il commentatore Ivar Arpi, si domanda: “La prossima richiesta? Il diritto di ricevere camerati suoi amici in visita?”.

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A parte il sarcasmo all’estero, sul trattamento di lusso riservato al terrorista -proveniente, poi, proprio da un paese come la Svezia– la decisione dei giudici norvegesi, con il buonismo c’entra poco o nulla. E’ coraggiosa, come ha sottolineato all’Aftenposten, uno dei quotidiani più letti del regno, Thomas Horn, un avvocato esperto di regime carcerario in isolamento: “Il nostro sistema giudiziario ha dimostrato di funzionare a perfezione”, ha detto al quotidiano, “rivedendo parzialmente le sue decisioni anche di fronte ad un procedimento cosi complesso”. Ed è proprio questa, a mio avviso, la chiave di lettura più interessante: questa non è una sconfitta per lo stato norvegese ma viceversa una prova dell’eccellente funzionamento dei loro tribunali che hanno dimostrato un grado di imparzialità sorprendente.

D’altronde non era in discussione la sentenza o il giudizio sui drammatici fati del 22 luglio; no, qui si parlava di altro: il regime di isolamento e il trattamento del detenuto. La decisione è cruciale in questo periodo storico e poco importa che arrivi dai tribunali di uno stato ricco, pacifico e con poche tensioni interne; come ha sostenuto correttamente al quotidiano Dagbladet Bjorn Ihler, uno dei sopravvissuti alla strage di Utoya “la questione è il trattamento dei detenuti e il rispetto delle Convenzione europea da parte degli stati che vi aderiscono”. Secondo Ihler, il rispetto dei diritti in carcere aiuterebbe a smorzare le tensioni e rendere la società tutta più sicura e meno esposta alla minaccia terroristica.

E se lo dice un giovane scampato per miracolo a quella carneficina, che oggi vive in Turchia e ha quindi come metro di paragone un modo radicalmente opposto di applicare i precetti della Convenzione (ovvero la non applicazione), probabilmente c’è da riflettere. E c’è da riflettere soprattutto in un periodo storico complesso come quello attuale, dove la tentazione di contaminare la civiltà giuridica europea basata sullo stato di diritto, con principi che hanno a che fare più con la vendetta che non con la giustizia, è forte. Un trattamento giusto in stato di detenzione, vale la pena ricordarlo, non toglie nulla alla durezza dello stato di permanente privazione della libertà, che per Breivik rimane tale nonostante la Playstation.

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