La risalita della disoccupazione all’11,7%, registrata a febbraio e resa nota con il ritardo di un mese, sancisce la fine della presunta luna di miele tra governo e lavoro; a dimostrazione – se ce n’era bisogno – che i segnali positivi registrati nel recente passato erano il puro e semplice effetto di un “drogaggio” (gli sgravi fiscali di 8mila euro ad assunzione) a fronte dell’accertata inefficacia concreta di tutto l’apparato comunicativo sulle mirabilia della flessibilità. Perché stupirsi, visto che i “rottamatori” dovrebbero conoscere bene gli effetti di queste operazioni, come nel doping delle vendite di auto o elettrodomestici: immediato effetto boom finché durano gli incentivi, crollo delle vendite al loro venire meno.

Renzi e Boschi, un patto di ferro con le lobby

D’altro canto, per quale motivo avrebbe dovuto registrarsi una stabile ripresa occupazionale se non sono stati neppure minimamente sciolti i nodi scorsoi della crisi che attanaglia il nostro sistema produttivo, di cui i livelli occupazionali risultano immediata e diretta conseguenza?

Una questione particolarmente urticante per chi – come Matteo Renzi – ha puntato buona parte delle sue carte carrieristiche sulla benevolenza di quelli che Ernesto Rossi chiamava “I padroni del vapore”, tanto da  ferire il buon gusto e il buon senso nell’elogio sperticato a Sergio Marchionne; l’autore del trasferimento dell’industria automobilistica nazionale in altri lidi, dopo aver succhiato il succhiabile dalle casse pubbliche italiane. Tanto che in terra americana il nostro premier gratifica dell’epiteto di “benefattore dell’italica economia” siffatto imprenditore (con il non gratificante precedente di Giulio Andreotti che, sempre nell’atmosfera esilarante degli States, elogiava come “salvatore della lira” un tal Michele Sindona).

La scelta di lasciare man libera al padronato aziendale, che rivela l’imbarazzante incapacità di ragionare in termini di politica industriale: il governo che svolge un ruolo di indirizzo delle scelte in materia produttiva a fronte dell’investimento pubblico (appurato che quello privato è pressoché inesistente; e – nelle rare volte in cui fa capolino – si rivela impaziente al punto da indirizzarsi solo verso operazioni speculative a brevissimo termine). Imbarazzante ma anche inquietante, visto che il nostro declino come grande paese esportatore, con i conseguenti effetti sull’occupazione, è la diretta conseguenza dell’invecchiamento del parco merceologico con cui giochiamo la partita: le tre “effe” (food, fashion, forniture: alimentare, straccetti firmati e mobilia); settori che presentano soglie di accesso tecnologico bassissime, tanto da essere largamente “penetrati” dai Paesi di nuova industrializzazione. Impasse che richiederebbe una stretta integrazione fertilizzante tra ricerca tecnologica e impresa.

Ma anche qui, cosa fa questo governo improvvisato e pasticcione? Presume di tirare fuori l’asso dalla manica dando mandato all’incontrollato e incontrollabile Istituto Italiano di Tecnologie, che nella sua attuale sede sulla collina desertificata dietro Genova non ha saputo produrre un caso di fertilizzazione industriale che sia uno. In un decennio, mica meno; e a fronte di faraonici finanziamenti pubblici (come dire, almeno “curiosi” per un ente di diritto privato), mentre il resto della ricerca nazionale soffriva di anemie a livello deliquio.

Ma l’importante – ancora una volta – è raccontare la favola dell’uva e convincerci con intensificati chiacchiericci che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Fino a quando si potrà tirare la corda giocando sulla pelle delle persone?

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