Nei giorni scorsi, Svimez ha pubblicato i dati contenuti nella nota di ricerca “Le spese per la cultura nel Mezzogiorno d’Italia (di Federico Pica e Alessandra Tancredi). Ne emerge, incontrovertibilmente, che “Dal 2000 al 2013 la spesa totale nel settore della cultura ha subito un crollo di oltre il 30% nel Mezzogiorno, passando da 126 a 88 euro pro capite, contro il -25% del Nord”.

Nel far riferimento alle “spese per la cultura”, lo studio intende “interventi a tutela e valorizzazione di musei, biblioteche, cinema, teatri, enti lirici, archivi, accademie, ma anche attività ricreative e sportive quali piscine, stadi, centri polisportivi, fino alla gestione di giardini e musei zoologici”. Gli attori primari di questa scena sono: Comuni, Stato, Coni. Minore l’apporto delle Regioni, che destinano al settore solo risorse comunitarie. Fanno notare, gli autori della nota, quanto sia “evidente il rischio che, allorché il vincolo di bilancio diviene via via più severo, le spese per la cultura siano considerate, rispetto ad altre finalità, spese voluttuarie e conseguentemente sacrificate. Anche a questo riguardo le preferenze effettive sono mostrate non dalle dichiarazioni dei politici, ma dai comportamenti di spesa”.

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A fronte di un drastico taglio nelle spese per la cultura nelle amministrazioni centrali (-74.6% al sud, nel periodo 2000-2013), non resta che constatare che “in Puglia e Calabria nel 2013 la spesa per abitante per la cultura è stata poco più della metà di quella media nazionale, cioè 68-69 euro contro 126”. Non va meglio nelle regioni del Nord, nello stesso periodo di riferimento (Veneto -21%; Emilia-romagna e Toscana -39%).

Condivido la lettura di Svimez, quando sottolinea che “le spese per la cultura “attengono ai livelli essenziali delle prestazioni (Lep), che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Non derogabili, banalmente, col pretesto dell’austerity.

La gravità di questi risultati va ben al di là di una mera contrazione di investimenti proprio su ciò che costituisce la più grande ricchezza del nostro paese. In un paese dal patrimonio culturale sconfinato, ridurre le spese in cultura significa depotenziarne l’impatto, impoverire le coscienze che quel patrimonio dovrebbero almeno comprenderlo, prima ancora che valorizzarlo o, persino, farne occasione di arricchimento, senza danneggiarlo.

Tempo fa, avevo letto, nel saggio di Emanuele FelicePerché il Sud è rimasto indietro”, una chiara risposta alla ragione per cui il Sud fosse rimasto più o meno fermo: “Perché un esito così deludente? Ma perché nel sud Italia non è mutata nella sostanza la struttura del potere. E non sono scomparsi nemmeno i deprecabili effetti che da tale struttura promanano: l’etica particolaristica, le pratiche clientelari, il peso delle organizzazioni criminali”.

Il sociologo Emanuele Ferragina, dal canto suo, aveva sottolineato, nell’articolo “Capitale sociale e mezzogiorno, che “accrescere il capitale sociale nel mezzogiorno è un obiettivo fondamentale per rilanciare la competitività delle regioni meridionali”.

Mi domando come si intenda incrementare il “capitale sociale”, nel Mezzogiorno, ossia “l’insieme delle reti formali e informali sommate al grado di fiducia che i cittadini hanno nei confronti degli altri cittadini e delle istituzioni”. Senza quel capitale sociale, il Sud resterà sempre fermo ai tempi in cui ne scriveva mirabilmente Carlo Levi, inutile nasconderselo.

Come si intende accrescere il livello del dibattito o la partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica? Come si desidera alimentare il fuoco della passione che dovrebbe animare i nostri giovani e “innamorarli” alla lotta per la difesa dei diritti sanciti dalla nostra Costituzione? Come si intende dotare le nuove generazioni degli antidoti che possano metterle al riparo dal tarlo delle lusinghe degli speculatori di futuro, leggi mafiosi, politicanti, demagoghi di turno?

Erodendo, forse, quel terreno su cui i nostri giovani dovrebbero poter poggiare saldamente, fatto di riferimenti culturali, biblioteche, università, scuole, e anche palestre?

Anche in questo caso, la Questione meridionale è ormai questione nazionale. La “linea della palma”, di cui parlava Sciascia, lambisce ormai le Alpi.

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