Mai una volta, negli anni dell’adolescenza, nelle case gialle, con Romina, Massimo, e gli altri, ho sentito pronunciare la parola Talento. Non sapevamo che farcene al limite del talento, ma non c’era da riflettere su un sostantivo che non apparteneva a un mondo, a un gergo. Il talento era un impiccio. Nemmeno la prof di italiano del liceo mi riconobbe qualcosa, benché gli scritti fossero al di sopra della media, esortava mia madre perché venissi seguita da uno psicologo. La prof di italiano credeva a tutte le balle che raccontavo nei miei temi, ora vorrei dirle: ma era soltanto il piacere della parola, era solo compiacimento anzi, impreparato e maldestro, era tutto funzionale e tutto serviva al suono al ritmo ad una certa suggestione che doveva farsi luogo. Erano balle. L’ultimo anno di liceo non fu il migliore, ci furono un sacco di problemi, avevo nella testa tutti quegli zombie che incontravo al Sert quando Massimo andava per il metadone o sentivo parlare solo di roba o del male, dell’Hiv o di chi si era fatto di ero cattiva. Non so quanti anni avessi, ne avevo duecento, fu un anno terribile. Così un giorno, l’insegnante di inglese, che spesso in classe arrivava in ritardo, mi disse che nella vita sarei stata assente, avrei mancato, come a scuola, era una regola. Mi sembrò una fatwa.

La mattina, Massimo aspettava davanti la porta del Sert. Pensavo di amarlo. Quasi sempre andavo con lui, perdevo giorni di scuola, mentre Romina lavorava in un bar e mi mandava al diavolo perlopiù, le scocciava che frequentassi Massimo, per lei era già morto. Invece io ero convinta di salvarlo, è stata la mia maledizione. Al Sert si scambiavano i flaconi con le urine, usavano quelle di qualcuno pulito, aspettavano il metadone per poi stare malissimo, la rota spaccava i reni e lo sapevano, era peggio dell’eroina. Romina aveva smesso di studiare e aveva smesso anche con il fumo, alle case non andavamo più. Mary era sempre più bella, con la sua Audi che ammiravamo tutti, i compagni erano ancora lì a farsi, ero rimasta sola con il solito tedio. Massimo era squallido, lo avevo realizzato durante le mattine al Sert, lo vidi veramente, chino sulla sua stessa inedia, il suo grigiore di tossico che non ne sarebbe uscito mai dalla roba e dagli impicci. Li chiamavano impicci. Scalciavo carta stagnola per terra, quartini di ero, quel che restava, ovunque cicche e scatole di acqua distillata. Alle case c’era puzza di fogna, i ragazzini giocavano tra lamine di Eternit. Il sole era nero, piombava sui tetti di amianto.

©Veronica Tomassini. Tutti i diritti riservati trattati da Vicki Satlow Literary Agency,  Milano

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