Un gesto che “non ha eguali nella storia d’Europa“, del quale si occuperà “la storia politica italiana”, che “scommette sul futuro dell’Italia” e ha centrato un obiettivo “impegnativo”, “irrealistico”, “ambizioso”, “temerario” e “impossibile”, prodotto di “previsioni ardite”, diventato realtà grazie alla “straordinaria tenacia e determinazione” del ministro Maria Elena Boschi.

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, parlando al Senato che chiede per l’ultima volta di abolire, spinge a tavoletta, sceglie l’iperbole, rilancia la sfida, ma usa l’ordine del giorno per parlare d’altro: parla d’Europa, parla di petrolio, dell’economia, perfino di quantitative easing, dello stato di salute dell’Italia che “non sta bene, ma sta meglio”. E riparte dalla prima volta che chiese la fiducia. “Due anni fa – ricorda il capo del governo – presi la parola qui per presentare un governo molto snello, il secondo più snello nella storia repubblicana, con la maggiore presenza di donne e l’età più bassa: io stesso non avevo l’età per sedere in Senato”. Proprio lì, a Palazzo Madama, esordì “con una provocazione che qualcuno non mi ha perdonato: dissi che volevo essere l’ultimo premier che chiede la fiducia a questa Aula. Se questa aula confermerà il voto espresso, quella previsione ardita diventerà realtà”.

E il sì sul ddl con le riforme costituzionali, che ora passa alla Camera per l’approvazione definitiva, arriva puntualmente, con 180 sì, 112 no e 1 astenuto. Ma solo perché le file dei verdiniani si ingrossano giorno dopo giorno. La maggioranza che sostiene l’esecutivo non sarebbe infatti riuscita da sola ad approvarlo: per arrivare alla maggioranza assoluta di 161 voti è servito il sì non solo di 17 verdiniani ma anche di due senatori di Forza Italia, Bernabò Bocca e Riccardo Villari, che già avevano dato il proprio consenso nella scorsa lettura a palazzo Madama, e tre esponenti tosiani di “Fare”, Raffaele Bellot, Emanuela Munerato e Patrizia Bisinella. L’unico del partito democratico a votare ‘no’ è stato Walter Tocci, mentre la senatrice a vita Elena Cattaneo si è astenuta. “Attenzione che questi risultati aprono la strada a una stagione di trasformismo e annunciano una lunga e profonda palude in cui il Pd non può e non deve smarrire la propria identità riformista di forza di centrosinistra”, è il commento del senatore bersaniano del Pd Miguel Gotor. Cui arriva la replica a stretto giro dei compagni di partito: “Ma il Gotor che parla di trasformismo è lo stesso che voleva fare un partito con Montezemolo?” scrive su Twitter Ernesto Carbone. “Fosse per lui le riforme sarebbero partite dopo, molto dopo. #aspettandoGotor” cinguetta il senatore Andrea Marcucci.

Gongola Lucio Barani, presidente del gruppo Ala: “L’approvazione in terza lettura al Senato della Riforma Costituzionale, con la quale si abolisce il bicameralismo paritario, è un passaggio storico per il quale i voti di Ala sono stati determinanti”.  Un merito che sottolinea anche Ncd. “Il Paese svolta –  scrive in un tweet il ministro dell’Interno Angelino Alfano -. Senza di noi sarebbe stato impossibile. Ne siamo orgogliosi e pronti a partire per la campagna sul Sì”. Diversa la lettura di Francesco Russo, segretario d’Aula del gruppo Pd: “La maggioranza è sulle riforme, al Senato, assolutamente autonoma. Oggi c’erano cinque assenti di maggioranza per motivi di salute o di altra natura, non per scelte politiche. Se fossero stati presenti, avremmo avuto la maggioranza necessaria per approvare la riforma costituzionale, anche senza il contributo dei voti delle forze di opposizione. Questi sono i calcoli corretti da fare. Qualsiasi altro ragionamento è strumentale“. Su Twitter poi Russo aggiunge: “Provino a dire quello che vogliono. Ma il vero campione della politica come servizio ce l’abbiamo noi. È il senatore Sergio Zavoli, che è venuto a votare in Senato le riforme costituzionali nonostante fosse stato in ospedale fino a oggi”.

Renzi ha poi assicurato che la legge Boschi non cambierà l’assetto istituzionale, non porterà squilibri, manterrà le garanzie fissate dalla Costituzione. Ma ha anche rinnovato la partita del referendum, gettando in mezzo di nuovo la posta in gioco. Per settimane quelli del no avevano detto che non dovrà essere un plebiscito su di lui. E il presidente del Consiglio invece ha rilanciato e gettato sul tavolo, di nuovo, la posta in gioco: lui stesso, la sua carriera, la sua permanenza in politica. “Così magari è un incentivo per quelli che non mi hanno simpatico” ha ripetuto lui, un po’ autoironico e un po’ no. “Ripeto qui: se perdessi il referendum considererei conclusa la mia esperienza perché credo profondamente nel valore della dignità della cosa pubblica”. E in Aula, al Senato, guardando le opposizioni che è arrivata la sfida aperta: “Sarà affascinante vedere le stesse facce gaudenti di adesso, quando, il giorno dopo il referendum sulla riforma, avremo dimostrato da che parte sta l’Italia: questa è l’Italia che sta ripartendo”.

È sembrato il discorso di un presidente che chiede un voto di metà mandato, un giudizio sull’operato dell’esecutivo, e quasi quasi è sembrato parlare al Senato perché Bruxelles intendesse. Ha alzato la voce, guardando le opposizioni, si è rivolto ai senatori della minoranza del Pd che voteranno sì ma al referendum non si sa. I toni sono stati quelli da palco del Pd, più che da banchi di governo. “Sfatiamo la favola che si è raccontata. Non sono i fattori esterni a far ripartire l’Italia ma il fatto che finalmente si è rimesso in moto il meccanismo delle riforme. L’Italia riparte se si rimettono in moto i consumi interni e la fiducia della gente. Eravamo improvvisamente diventati la Cenerentola della crescita e il fanalino di coda perché abbiamo rinunciato a considerare i nostri punti di forza”.

Nel merito, poco. “Noi non tocchiamo il sistema di pesi e contrappesi previsti dalla Costituzione, non si incide sul ruolo della Presidenza della Repubblica come definito dai padri costituenti. Questa riforma rende meno ingessato il sistema parlamentare”. E del percorso fatto va ringraziato il presidente emerito Giorgio Napolitano: “Se non ci fosse stato il suo discorso nell’aprile 2013 non ci sarebbe questa riforma e non sarebbe in piedi questa legislatura”. Quanto al risultato finale “andremo casa per casa. Questa è considerata una minaccia da chi non ha esperienza di voti popolare. Chi ci accusa di plebiscitarismo è lo stesso che ci accusava di autoreferenzialità in un incrocio di accuse mosse da risentimento personale e politico”. L’opposizione ha rumoreggiato, Sinistra Italiana ha tirato fuori dei cartelli con scritto No. “Qualcuno – ha rivendicato Renzi – diceva che erano arrivati i dilettanti al governo, qualcuno lo pensa ancora. Io sono affezionato all’idea che i dilettanti hanno costruito l’arca di Noè, i professionisti hanno fatto il Titanic”. “In due anni” di legislatura “è cambiato un passaggio fondamentale, è tornata in campo la consapevolezza che se l’Italia vuole le cose le fa. Mancano due anni, 730 giorni alla fine della legislatura, non ne perderemo neanche uno per far ritornare l’Italia leader nel mondo“. È apparsa come la celebrazione del potere del governo. Ma d’altra parte, ha spiegato “il potere che esercitiamo e dal quale non ci nascondiamo, perché potere è servizio, ha senso se messo in campo per cambiare l’Italia”.

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