Penso che tutti, ma proprio tutti, abbiano detto la propria sul film di Checco Zalone. Quindi approfitto di questo spazio per dire anche la mia: Quo vado?  è scontato e pure parecchio ruffiano, perché tutta la trama, se si può usare questo termine per un film dall’intreccio elementare, ammicca furbescamente a un bacino enorme di pubblico che di solito non va al cinema. Però, bisogna ammetterlo, è riuscito in un’impresa difficile: far ridere le persone. Se riesci a far ridere qualcuno (ve lo ricordate cosa diceva Jessica Rabbit del marito Roger?) e a farlo evadere dalla realtà (non si spiegano in altro modo i milioni di libri venduti dalla saga di Harry Potter) allora hai in mano le chiavi del tesoro. Che in questo caso equivale a portare nelle sale un numero esorbitante di italiani che i film di solito li guardano a casa, usando le stesse leve che hanno permesso a J.K. Rowling di portare sui libri generazioni di bambini e adulti che di libri non ne avevano quasi mai letti. Parliamo di prodotti diversi, ma il discorso non cambia. Se poi, tornando a Zalone, ci metti pure che dietro c’è la regia di una macchina comunicativa diabolica e che agli italiani, colti o non colti, il nazionalpopolare cinepanettonesco piace, ecco che il record di incassi è servito.

Parentesi chiusa. Ho accennato a Quo vado? per due motivi. Il primo, irrilevante: il passaparola è talmente subdolo che non solo ti obbliga a vedere un film di cui tutti parlano, ma ti fa sentire anche in obbligo di esprimere il tuo parere. Il secondo, più importante: perché sono proprio queste estremizzazioni che ti ricordano, tra un luogo comune e una risata, di come gli italiani possano essere molto meglio di come amano autorappresentarsi e che quando vogliono, anche senza budget stellari, possono eccellere in ogni campo.

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Il portale Italian Stories è stato lanciato un anno or sono, con l’obiettivo di dare visibilità al lavoro di artigiani giovani e meno giovani, startuppari o più tradizionali, mettendoli in contatto con chiunque sia interessato a guardare, acquistare o imparare la loro arte. Insomma, un marketplace virtuale che un po’ alla volta ha iniziato a riempirsi di foto e storie, entrando nelle botteghe dei falegnami bolognesi e dei tessitori veneziani, degli stampatori vicentini e dei maestri dell’oreficeria fiorentina. Sul sito ad oggi si contano un’ottantina di artigiani che offrono al turista la possibilità di visitare il proprio luogo di lavoro, di fare dei workshop e di creare a quattro mani un oggetto personalizzato, come un paio di scarpe di cuoio, nella bottega di Olivia a Pesaro, o una pipa freehand, dal pipaio Bertram di Bolzano. Al visitatore sono indicati gli orari, i prezzi (dai 5 ai 30 euro per le visite, 60 euro in media per i workshop) i posti disponibili e le esperienze prenotabili, a partire da un luogo o dal materiale lavorato.

Italian Stories è il frutto dell’intuizione e del lavoro di due architetti, Eleonora Odorizzi e Andrea Miserocchi. Entrambi avevano un’idea chiara in testa: valorizzare il Made in Italy usando la rete, per far incontrare un’offerta spesso male e poco veicolata, soprattutto da parte degli artigiani non nativi digitali, con una domanda in forte crescita, quella dei turisti italiani e stranieri che cercano esperienze personalizzate all’insegna dello slow travel. Dietro il pagamento di una commissione, l’artigiano ha la possibilità di comunicare la propria arte a un pubblico vasto, che a sua volta può guardare e imparare come vengono prodotte le creazioni che fanno parte del patrimonio della manifattura italiana.

Dopo un anno di rodaggio Italian Stories è pronto a crescere, con una nuova sezione dedicata ai musei dell’artigianato e delle pagine riservate ai territori che vogliono valorizzare l’indotto locale. L’obiettivo finale è far sì che l’artigianato diventi destinazione e veicoli turismo, più o meno come fanno un monumento o una località. Il trucco, si è già detto, sta nell’unire la tecnologia e il marketing con le conoscenze e le maestranze. Si tratta di una strategia usata da molti marchi celebri, soprattutto nel campo della moda. Un nome su tutti: la maison Gucci, che ha (ri)costruito negli ultimi dieci anni la sua immagine e il brand unendo approccio industriale con valorizzazione dell’eccellenza artigianale.

Una considerazione finale. Italian Stories è certamente un frutto della sua epoca. Nasce da un grande bisogno, quello di tornare alla manualità e al rapporto umano diretto.  Si tratta di una tendenza incontrovertibile che forse non stravolgerà mai il nostro modo di vivere, ma che di certo sta contribuendo un po’ alla volta a renderci più consapevoli di chi e cosa abbiamo intorno a noi.  È successo con il cibo – quando tutto sembrava standardizzato e surgelato,  la coltivazione della terra e il chilometro zero sono tornati di moda – e anche con i libri: nonostante la superpotenza Amazon, le librerie indipendenti tengono botta. Ora sta succedendo anche con l’artigianato, sulla scia anche di una maggiore sensibilità collettiva per l’ambiente ma soprattutto per una ragione: il lavoro artigianale, compreso quello fatto su scala industriale, dà dignità non solo alle cose, ma anche alle persone.

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