Il Consiglio d’Europa stima in Italia una presenza di circa 170-180mila rom e sinti (circa lo 0,23% della popolazione), in maggioranza minorenni e giovani, di cittadinanza italiana e quasi tutti lontani da ogni forma di nomadismo.

Nel pensiero comune si tratterebbe di un blocco omogeneo, segnato da una povertà vissuta nel ghetto urbano chiamato “campo nomade”. Gli esperti di “questione rom” li distinguono in realtà in tre macro gruppi in relazione alla cittadinanza e al periodo di immigrazione: un primo gruppo è composto da circa 70mila persone, tutti cittadini italiani, presente in Italia da oltre 600 anni e distribuito su tutto il territorio nazionale; un secondo è costituito da circa 90mila rom balcanici arrivati negli anni Novanta, in seguito soprattutto alla disgregazione della ex Jugoslavia e stabilitisi a macchia di leopardo sul territorio nazionale; un gruppo di migrazione più recente è composto da cittadini comunitari, rom di nazionalità romena e bulgara, presenti prevalentemente nelle grandi città in condizione di grave povertà.

Le comunità rom di più antico insediamento sono collocate nelle diverse regioni che vanno da Nord a Sud: sinti piemontesi, stanziati in Piemonte; sinti lombardi, presenti in Lombardia, in Emilia e parte anche in Sardegna; sinti mucini; sinti emiliani, nella parte centrale dell’Emilia Romagna; sinti veneti, presenti nel Veneto; sinti marchigiani, presenti nelle Marche, nell’Umbria e nel Lazio; sinti gàckane, immigrati dalla Germania, attraverso la Francia, in tutta l’Italia centro-settentrionale; sinti estrekhària in Trentino-Alto Adige; sinti kranària, nella zona del Carso; rom calabresi, stabilitisi da secoli in Calabria; rom abruzzesi, presenti sin dal XIV secolo e diffusi oltre che in Abruzzo e Molise, anche nel Lazio, in Campania, in Puglia, nelle Marche e in diverse città lombarde; ròmje celentani, presenti nel Cilento; ròmje basalisk, presenti in Basilicata; ròmje pugliesi, stanziatisi in Puglia.

In contesti rurali del Meridione la loro presenza è stata per secoli associata all’esercizio di attività correlate al commercio e alla lavorazione della carne di cavallo, di asino e di mulo e alla presenza a fiere e mercati. Oggi numerosi rom, che una volta svolgevano il commercio di cavalli, sono diventati allevatori di equini da macello e la maggior parte delle macellerie a specializzazione equina sono gestite proprio da loro.

Domenica 20 dicembre presso il Teatro Vascello di Roma si svelerà per la prima volta la loro storia. Lo si farà partendo dal racconto autobiografico di Claudio “Cavallo” Giagnotti, figlio di una donna rom, nonché leader della famosa band di pizzica salentina Mascarimirì. Il titolo del film che toglie il velo sulla secolare presenza dei rom in Salento è “Gitanistan. Lo Stato immaginario delle famiglie rom salentine”. Attraverso la sua storia, Claudio “Cavallo” compie un viaggio alla scoperta delle famiglie del ramo materno, un tempo allevatori di cavalli, oggi macellai e commercianti di carne equina, totalmente integrate con le comunità locali del Salento, al punto che nessuno è stato a conoscenza della loro esistenza. “Con Gitanistan – racconta l’autore, che con Pierluigi De Donno ha curato il film – oltre a scavare nella mia infanzia, nella mia famiglia, nella mia verità, parlo di una comunità fino a oggi quasi inesplorata”.

Vedere “Gitanistan” è entrare nel cuore del Salento, dove la tradizione culinaria, fatta di celebri “pezzetti di cavallo”, e quella musicale, scandita al ritmo della Danza Pizzica Scherma, altro non sono che il frutto di una contaminazione culturale, puro ossigeno per un’Italia vecchia e stanca. Storie di “mescolamento” sono presenti e vive in tante altre città italiane, da Mazara del Vallo a Bergamo, narrazioni che come due cerchi che si incontrano, rappresentano la fusione di due culture.

Siamo abituati ad associare la “cultura rom” alla “cultura dei campi”. E’ un errore. Lo stesso che rischieremo di compiere se decidessimo di chiamare “cultura italiana” quella dei mafiosi nascosti nelle campagne siciliane o la “cultura del racket” propria di chi di taglieggia il 30% degli imprenditori milanesi.

Ma “Gitanistan” non è solo questo. Il film ci insegna anche che tutelare una cultura non significa cristallizzarla in una tradizione o fissarla in una legge. Ogni cultura vive nel momento in cui si dissolve per rivivere, contaminata, sotto forme nuove e mutevoli.

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