Conniventi, distratti e separati da agende politiche inconciliabili. Ecco la fotografia dei Paesi leader della Coalizione anti Isis, Russia, Stati Uniti, Turchia e Paesi del Golfo: una mal assortita armata brancaleone che ha permesso, dal 2014, un’espansione del Califfato. Che ha a sua volta causato il collasso del quadro geopolitico nella regione. E ora il problema è diventato ingestibile. Qualcuno, però, sta cercando di approfittare della situazione e sfruttare la guerra all’Isis anche per altri scopi.

Obiettivi inconciliabili: Isis ringrazia
“La coalizione, ormai, è iper sfilacciata”. Parte da questo dato di fatto Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano. Tra le cause dell’unione impossibile, agende politiche che guardano ad altro. “Per gli Stati Uniti il problema principale è cacciare la Russia dal Medio Oriente, marginalizzandone il ruolo anche all’interno della coalizione”, commenta Parsi. Come? “Quello che hanno lasciato fare ai turchi (l’abbattimento del caccia Su-24 da parte di due F-16 dell’aviazione turca, ndr) è stato un modo per alzare la posta in gioco” e aumentare la pressione su Mosca.

Oltre a questo, però, gli Stati Uniti vogliono anche aiutare gli alleati dell’area (Arabia Saudita e Israele su tutti), combattere lo Stato Islamico e compattare l’Europa – ancora una volta – in chiave anti Putin. “Tre obiettivi che non stanno insieme” e che hanno reso per troppo tempo l’Isis una non-priorità, è il giudizio del professore. In Medio Oriente questo è l’ultimo errore di una sfilza in cui è incappata la Casa Bianca: “L’unica scelta corretta e molto importante è stata siglare l’accordo con l’Iran. Per il resto è stata una politica estera piena di contraddizioni”, valuta Parsi.

Al contrario, il Cremlino persegue un’agenda molto coerente: “Primo, sostenere il regime siriano anche senza Assad. Ottenere un governo che lascia a Mosca le sue basi in Medio Oriente è sufficiente – continua – secondo, attrarre a sé l’Iran ora che è un attore ben accettato da tutti dopo il trattato sul nucleare. Terzo combattere l’Isis: Putin ha un rapporto visceralmente ostile con l’estremismo islamico. Non ci dimentichiamo la Cecenia”, dove per altro esiste una congiuntura tra organizzazioni jihadiste locali e Isis. I tre obiettivi, dunque, sono coerenti, ma in contrasto con Washington. Isis ringrazia.

I rischi di giocare con il fuoco
“Le frammentazioni aiutano sempre i più forti: in questo caso si tratta di Iran, Turchia e Arabia Saudita. Solo che la crescita di Isis rischia di essere micidiale per tutti”. Parola dell’ambasciatore (che fu capo missione, ad esempio, in Arabia Saudita e Tunisia) Armando Sanguini, ora in pensione. “La Russia ci sta guadagnando? Forse sì: avere un mondo arabo molto indebolito la rende di nuovo una presenza importante nella regione”. Non ci sono dubbi di chi, finora, esca invece con le ossa rotte: Europa e Stati Uniti, i più responsabili delle sottovalutazioni che hanno lasciato crescere Isis. Una colpa “forse causata solo da scarsa visione”.

Questa “guerra omeopatica”, come la definisce Sanguini, non indebolisce il Califfato, anzi. “Le batoste sul terreno sono tutte da dimostrare: i rapporti americani danno una perdita del 20-25% del Califfato rispetto al 2014”, ma il New York Times aveva parlato della falsificazione di questi documenti, continua l’ambasciatore. Al campo si aggiunge il rischio che Isis diventi un riferimento per tutti i sunniti che non si sentono al sicuro: “Non si è voluto vedere come in Paesi come l’Iraq siano stati marginalizzati” è il commento del diplomatico.

Russia e Turchia, poi, stanno combattendo una guerra tutta loro, interna: “Non è un caso che il jet russo sia stato abbattuto mentre sorvolava una zona dove si trovano i turcomanni, che combattono contro il regime di Bashar Al Assad. I russi, dopo l’incidente, sono intervenuti dicendo di aver fatto ‘piazza pulita’ dei turcomanni”. Di nuovo, perseguendo il fine di proteggere l’alleato Assad, più che combattere l’Isis.

Gulf connection
“Già da molti decenni l’Arabia Saudita alimenta correnti radicali sunnite perseguendo un disegno egemonico sui Paesi mediorientali – spiega Massimo Campanini, professore di Storia dei Paesi islamici all’Università di Trento – non solo attraverso organizzazioni estremiste combattenti, ma anche finanziando predicatori di un certo tipo e controllando il discorso religioso”. I Paesi del Golfo e la Turchia hanno sostenuto l’Isis, i primi per ampliarsi, l’altra per impedire che i curdi potessero conquistarsi un territorio tra Siria, Turchia e Iraq. Ma c’è un “oscuro disegno alle spalle della creazione di Isis” impossibile da cogliere oggi: Isis non è “nata” da spinte propulsive dell’area, come invece accadde per Al Qaeda, valuta il professore. Poi c’è un’incoerenza di dottrina islamica che aumenta i sospetti sullo scopo dello Stato Islamico: “L’idea del Califfato è quella di compattare e riunificare l’Islam – commenta il professore – non destabilizzare il panorama internazionale e creare schegge impazzite”.

Lo scenario attuale al professore ricorda quello dell’11 settembre: in quel caso lo studioso è convinto che la Cia sapesse ciò che stava per succedere a New York, “ma serviva un pretesto per fare ciò che già era stato deciso, ovvero abbattere il regime di Saddam Hussein”. Prima di Baghdad, nel 2001 c’è stata Enduring Freedom a Kabul, ma il clima post 11 settembre ha certo contribuito a giustificare anche l’operazione in Iraq. Qui il caos rende ancora poco distinguibile chi stia macchinando alle spalle e con che obiettivo. Un primo risultato è certo: “È aumentata l’islamofobia, che ha permesso all’Occidente di crearsi un nuovo nemico comune, che fa sempre comodo per giustificare le proprie azioni”.

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