Non solo americani, russi e francesi. A partire dalle prossime ora anche la Gran Bretagna entra in azione contro l’Isis in Siria. A bombardare le postazioni del Califfato ci saranno gli aerei della Raf, dopo il via libera di oggi votato dalla Camera dei Comuni, che nel 2013 si era opposta all’invio dell’esercito contro il regime di Bashar al-Assad. Il dibattito fiume è sfociato dopo una decina di ore nella prevista luce verde, con 397 sì e 223 no. A dispetto della protesta delle centinaia di irriducibili che hanno manifestato fino a sera fuori da Westminster al grido di “Stop the war”.

Un sì che il premier David Cameron ha invocato come una necessità, quasi un obbligo morale. “Questi terroristi pianificano di ucciderci. Ci attaccano per quello che siamo, non per quello che facciamo”, ha tuonato il leader conservatore in aula. Cameron ha ricordato anche che occorre una strategia “più ampia”, oltre all’esclusivo utilizzo delle armi. Non solo: ha fissato paletti più stretti che in passato, assicurando che la Royal Air Force colpirà soltanto gli jihadisti comandati da al-Baghdadi ed escludendo ogni nuova avventura “boots on the ground“. Ma ha insistito che molte delle trame terroristiche degli ultimi mesi contro il Regno Unito (sette, secondo Downing Street) sono state “organizzate in Siria”.

Anche la Nato viene sollecitata all’intervento in Siria contro Daesh. Da Bruxelles ci ha pensato il segretario di Stato americano, John Kerry, invitando i 26 membri dell’Alleanza Atlantica a “fare di più” ed evocando, senza entrare nei dettagli, un incremento dello “sforzo militare” collettivo nei confronti dei miliziani dell’Isis. Ma non si dovrà ripetere l’errore commesso in Iraq, quando gli stessi Stati Uniti – ha ammesso Kerry – favorirono “il crollo di uno Stato” senza avere una strategia credibile per il dopo.

A spianare la strada del voto favorevole all’intervento militare inglese contro l’Isis in Siria, c’è stata la spaccatura interna al Labour, sfociata nella libertà di scelta che il pacifista e leader del partito Jeremy Corbyn – pur irriducibile fino in fondo nel suo “no”- ha dovuto concedere alla fronda interna: qualche decina di deputati moderati  in grado di esprimere – con figure di spicco come l’ex candidata alla leadership Yvette Cooper o lo stesso ministro degli Esteri ombra Hilary Benn – i sì decisivi.

Per Corbyn, come per la larga maggioranza della base laburista e per i deputati dello Scottish national party, i precedenti dell’Afghanistan, dell’Iraq e della Libia dovrebbero indurre alla prudenza “in nome del buonsenso, non del pacifismo”. E i 70.000 miliziani “non estremisti” con cui, stando a uno dei passaggi più controversi di Cameron, ci si potrà coordinare sul terreno in Siria non sono altro che un’illusione (cosa che d’altronde denuncia pure Julian Lewis, presidente della commissione Difesa ai Comuni e conservatore anti-interventista).

Contestazioni alle quali s’affianca una polemica rovente per l’epiteto di “simpatizzanti dei terroristi” rifilato ieri sera dal premier al leader dei laburisti e ad altri “compagni” che in gioventù si fecero paladini del dialogo con la guerriglia nord-irlandese nel pieno dei sanguinosi anni ’80. Epiteto per il quale Cameron si è ostinatamente rifiutato di scusarsi. Ma alla fine non è stato lo scontro personale, e neppure l’offesa, a poter determinare il risultato. I giochi sono fatti. Cameron va alla guerra e saranno i risultati a decidere se lo scetticismo diffuso a piene mani persino da alcuni giornali di destra e le perplessità dei sudditi del Regno (favorevoli ai raid solo al 48%, passata l’emozione per gli attacchi di Parigi) non avranno avuto – anche stavolta – ragion d’essere.

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