La frase incriminata è questa: “Dovremmo immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento l’ora-lavoro“. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha questo talento, parlare di cose serie come se stesse sempre commentando l’ultima mungitura, il condimento di una tigella, lo spessore di una lasagna. Risulta perciò difficile prenderlo sul serio, discutere il merito di quello che dice invece che il modo, lo stile. Proviamoci.

Giuliano Poletti presenta il libro "Il Novecento" all'Università Roma Tre

L’orario di lavoro è ancora utile? La risposta è sì e no.

Gli economisti che studiano la teoria dei contratti dividono i lavori in due categorie: quelli di cui si può misurare lo sforzo e quelli dove non è possibile e conta solo il risultato. Se decido di vendere la mia casa, non pago all’agente immobiliare le ore di lavoro che impiega a trovare un compratore, ma soltanto la percentuale quando chiude il contratto. Se invece un’azienda decide di rivolgersi alla sicurezza privata per far cessare i furti, pagherà le ore effettive in cui una guardia armata presidia lo stabilimento. Come si sceglie un contratto o l’altro? Dipende dalla possibilità di monitorare l’impegno che il lavoratore (che nella teoria dei contratti si chiama “agente”)  ci mette per raggiungere l’obiettivo concordato con il suo datore di lavoro (il “principale”, nel gergo degli economisti).

Ci sono lavori dove gli orari sono completamente saltati. Penso a noi giornalisti, ma vale anche per tantissimi che lavorano nel settore dei servizi: quando aprite una mail che vi arriva sulla posta aziendale o rispondente al cellulare state lavorando o no? Qualche sera fa, di domenica, ero a mangiare una pizza con amici: tra questi una ragazza che si occupa di social media. Ha passato tutta la serata su Twitter, perché era un momento importante per la trasmissione tv di cui deve curare l’account. Quale contratto di lavoro potrebbe stabilire un orario che contempli anche la domenica sera?

Sempre più aziende – e non solo – danno per scontato che i loro dipendenti si impegnino, oltre all’ordinaria amministrazione, in progetti, corsi di aggiornamento, lavori di gruppo. E che siano sempre reperibili. Spegnere il cellulare o non rispondere a una mail entro 24 ore ormai legittima l’interlocutore a chiamare i parenti o gli ospedali per sapere se siete ancora vivi.

E questo solo per stare alla media, alla nuova normalità dei vecchi mestieri. Poi ci sono i lavori di frontiera che nascono proprio come incompatibili con un orario rigido: dai driver di Uber ai lavoratori a cottimo che vendono le loro prestazioni intellettuali su piattaforme come Cocontest o Amazon Mechanical Turk. Si mettono all’asta le proprie idee, o il proprio tempo, si incrocia domanda e offerta senza intermediari. Le fabbriche hanno ucciso gli artigiani e ora che le fabbriche stanno morendo, ritornano gli artigiani, più intellettuali di una volta ma altrettanto solitari e fragili.

Quindi, Poletti ha ragione: gli orari di lavoro spesso sono una mera finzione. La tecnologia, la pressione competitiva, ma anche le evoluzioni della normativa, ci hanno spinti in una direzione in cui l’unica cosa sensata sembra essere lo scambio tra flessibilità e reperibilità. Tradotto: accetto di dover lavorare sempre e ovunque, ma allora rivendico di poter mandare le mail dal letto, in pigiama, e di scrivere il business plan dalla baita sulle Alpi o dalla spiaggia.

Però Poletti ha anche torto. Restano moltissimi lavori dove non si può misurare soltanto il risultato, perché il lavoratore è soltanto un anello di una catena del valore lunga e complessa e l’unico modo equo di misurare la prestazione è il tempo ad essa dedicato. Si tratta di solito dei lavori a minore valore aggiunto, quelli che comportano basse qualifiche e bassi stipendi. Sono, insomma, i lavoratori più deboli che hanno bisogno di essere pagati in base al tempo e non in base ai risultati. Vale per gli impiegati pubblici, per gli operatori ecologici, per tutti i lavori su turni, per quelli usuranti, dove ogni minuto aggiuntivo pesa come un’ora.

La dichiarazione di Poletti può avere tre esiti. Il primo e più probabile: qualche giorno di polemiche e poi sarà dimenticata. Il secondo: trasformare i contratti di lavoro nazionali in una direzione che vincoli la retribuzione più ai risultati e meno al tempo (il rischio è che, a parità di salario, si debba lavorare di più. Un modo per aumentare la produttività, ma di fatto anche per tagliare gli stipendi). Terzo: che la politica e, chissà, anche i sindacati capiscano che non possono più ignorare le profonde trasformazioni dell’economia che li circonda. E che, quindi, finalmente si sforzino di immaginare tutele adatte a un mondo dove essere freelance è ormai la norma, non l’eccezione.

L’obiettivo della polemica dovrebbe essere la difesa del lavoratore, non dell’orario.

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