La Rai di Matteo Renzi è tutta nuova, ma con alcuni sapori classici. Per esempio lo stipendio del direttore generale, Antonio Campo Dall’Orto: 650 mila euro. Niente bonus per risultati, nessun legame tra retribuzione e obiettivi dell’azienda. Ma 650 mila euro garantiti ogni anno per tre anni, oggi come direttore generale, presto come amministratore delegato con pieni poteri. Un bel miglioramento per Campo dall’Orto, oltre mezzo milione in più di quanto percepiva come consigliere di Poste Italiane, poltrona di ripiego in attesa che la sua provata fede renziana gli fruttasse un posto più adatto alle sue competenze televisive.

La presidente Monica Maggioni ha una struttura della retribuzione diversa. Ha scelto di non ricevere un compenso specifico da presidente del consiglio di amministrazione, ma di mantenere quello che aveva come direttore di RaiNews24, intorno ai 300.000 euro. In aggiunta avrebbe potuto chiedere un emolumento da presidente, invece la Maggioni ha chiesto di essere equiparata a un normale consigliere di amministrazione, 66.000 euro. Nell’insieme, si arriva comunque a circa 366.000 mila euro. Che è quanto guadagnava, prima di lei, nel 2014 Anna Maria Tarantola, che però a quel reddito cumulava la pensione da ex vicedirettore della Banca d’Italia. E che a inizio mandato prendeva ancora di più, 448 mila euro.

Gli stipendi dei vertici Rai sono sempre un argomento delicato, la loro storia racconta molto della cultura aziendale e del rapporto con la politica. Prendiamo il caso del direttore generale: sono tanti o sono pochi i 650.000 euro per Campo Dall’Orto? Sono meno della metà degli altri capi azienda pubblici (Eni, Enel, Finmeccanica) e circa gli stessi che guadagnava Luigi Gubitosi all’inizio del suo mandato nello stesso ruolo, quando si è insediato nel 2011. A giugno 2015, però, il Cda della Rai, su proposta di Gubitosi, aveva deliberato che a tutta l’azienda si applicasse il tetto fissato dalla legge per la Pubblica amministrazione: 240 mila euro. Anche per Gubitosi e Tarantola, all’epoca già in scadenza di mandato. E per tutte le tante figure apicali che negli anni si sono accumulate qua e là per l’azienda, strapagate anche quando cambiano incarico. Gubitosi ha poi rinunciato all’assunzione a tempo indeterminato. Anche in Rai vigeva la pratica tutta italiana del doppio contratto al capo azienda: uno da amministratore delegato, a termine, e uno a tempo indeterminato da direttore generale. Così da assicurare o una consistente liquidazione, se i soci non sono contenti, o un comodo parcheggio dentro l’azienda. Gubitosi ha rinunciato al tempo indeterminato e, quando è scaduto il mandato, è uscito dall’azienda. Prima di andarsene, è anche riuscito ad allontanare altre figure apicali ormai prive di mansioni ma non di stipendio. Resta solo l’ex direttore generale Lorenza Lei, che a suo tempo arrivò a guadagnare intorno ai 750 mila euro all’anno: c’è pronta una lettera di licenziamento, ma ancora non le è stata consegnata.

Che fine ha fatto quello slancio di austerità? Il 20 maggio 2015, due giorni dopo che Gubitosi aveva convocato i dirigenti per tagliare i loro stipendi a 240 mila euro, l’agenzia Reuters comunica che la Rai ha avviato il collocamento di un bond da 350 milioni. Addio tetto: è la falla (voluta) nella legge sugli stipendi pubblici, l’azienda che emette un bond sui mercati quotati viene trattata come Enel, Finmeccanica, Eni, aziende a controllo pubblico ma le cui azioni sono negoziate in Borsa, con molti azionisti privati nel capitale. E che quindi, è il ragionamento, devono essere libere di cercare i migliori top manager, pagando la tariffa di mercato, sempre superiore a 240 mila euro. La Rai è tutta in mano al Tesoro e, si vede bene in questi giorni, sotto il diretto controllo della politica. Il mercato non c’entra nulla nella scelta dei vertici. Ma basta un bond e salta ogni tetto. A suo tempo anche i renziani si erano indignati: Michele Anzaldi, deputato Pd e membro della Commissione di vigilanza Rai, il 6 maggio scorso diceva: “Con l’emissione di bond, la Rai potrebbe aggirare il tetto e tornare a stabilire compensi superiori al limite di 240 mila euro. A tutte le amministrazioni e aziende pubbliche vengono chiesti sacrifici, sarebbe paradossale se alla Rai quegli stessi sacrifici entrassero dalla porta e uscissero dalla finestra. Il tetto deve rimanere anche a Viale Mazzini”. Chissà se ora darà battaglia anche allo stipendio dei due renzianissimi nuovi vertici.

Dalla Rai fanno notare due cose: che il bond non è stato emesso per far saltare i limiti ai compensi, bensì per ristrutturare l’oneroso debito della Rai. Un’operazione decisa molti mesi prima dell’entrata in vigore dei limiti alle retribuzioni, grazie al rating concesso dall’agenzia Moody’s l’azienda della tv pubblica paga ora un interesse molto basso, l’1,5 per cento e deve osservare anche gli stessi obblighi di trasparenza delle società quotate (più o meno, perché non c’è traccia di una relazione sulle politiche di remunerazione, con gli stipendi spiegati nel dettaglio). Seconda osservazione da Viale Mazzini: i due top manager guadagnano comunque molto meno di loro omologhi di altre società a controllo pubblico prive di tetto. Vero, ma si può osservare, incassano comunque molto di più di quanto avrebbero avuto se le ultime direttive di Gubitosi fossero rimaste in vigore.

L’austerità Rai è così, facile da annunciare, difficile da realizzare. I membri del nuovo consiglio di amministrazione hanno perso quasi tutti i benefit dei loro predecessori. Non hanno più l’auto con autista, niente carta di credito aziendale, niente assistente, niente segretaria, niente stanza singola. Prendono un compenso fisso di 66 mila euro all’anno e hanno una stanza ogni due. Ma hanno notato, con un certo disappunto, che il risparmio sulle stanze è minimo: l’unico risultato è che alcuni dirigenti si sono spostati in stanze più ampie. E anche quello sulle auto è relativo: la flotta di sette berline e quattro autisti viene comunque mantenuta, in Viale Mazzini, per avere un passaggio però bisogna prima farne richiesta, con gli autisti che si lamentano: “Fateci lavorare”.

Con il paradosso che i membri del cda non hanno l’auto aziendale ma alcuni dirigenti sì, come per esempio l’amministratore delegato di Rai Way, la controllata che gestisce le torri di trasmissione ed è quotata in Borsa. Stefano Ciccotti per l’incarico non riceve alcun gettone (è già pagato dalla Rai), ha però diritto a una Bmw X3.

di Stefano Feltri e Carlo Tecce

Dal Fatto Quotidiano del 27 settembre 2015

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