di Tatiana Biagioni*

Il Consiglio dei ministri ha recentemente approvato il decreto legislativo (ad oggi non ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale) che, tra le altre cose, interviene modificando alcune disposizioni del Codice delle pari opportunità.

Class action per le lavoratrici greche davanti al ministero

Più volte è stato ribadito che le ultime riforme in materia di lavoro non hanno sostanzialmente mutato la normativa antidiscriminatoria. In effetti, in caso di licenziamento discriminatorio si applica la “vecchia” reintegra ex art. 18 dello statuto dei lavoratori, indipendentemente dal numero di dipendenti impiegato nell’azienda, ed anche se si tratta di dirigenti. La stessa cosa può dirsi per il demansionamento discriminatorio: se oggi le aziende possono facilmente demansionare un lavoratore, rimane illegittimo un demansionamento discriminatorio, ad esempio quello delle lavoratrici madri al ritorno dalla maternità.

La legge n. 56 del 2014 (art. 1 commi 44 e 85 – Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni, abolizione delle province) prevede tra le competenze della aree metropolitane e degli enti con funzione di area vasta, il controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e la promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale.

Ma a fronte di questa “tutela forte”, alla luce delle ultime modifiche legislative può dirsi che altrettanto forti saranno gli strumenti atti a contrastare i comportamenti discriminatori?

Da anni su tutto il territorio nazionale, in ogni regione e in ogni provincia operano le Consigliere di Parità, che hanno il compito di promuovere nel mondo del lavoro le pari opportunità tra uomini e donne, nonché l’incarico, davvero di grande rilevanza, di agire davanti ai giudici del lavoro per conto o al fianco delle persone che subiscono discriminazioni di genere: donne licenziate a causa della gravidanza, donne molestate sessualmente sul luogo di lavoro, a titolo di esempio.

Con il nuovo decreto, nel silenzio generale viene di fatto abrogata la figura delle Consigliere di Parità, importante presidio antidiscriminatorio sul territorio italiano.

Per anni le Consigliere sono state un punto di riferimento per tutte le donne che hanno subìto ingiustizie sul posto di lavoro. Dalla loro istituzione ad oggi, con differenze a seconda dei vari territori e delle varie e diverse competenze, di grande rilievo è stato il lavoro che questi piccoli grandi uffici hanno svolto: poche risorse, molto impegno, spesso grande competenza.

Nel corso degli anni le risorse delle Consigliere si sono via via assottigliate sino a diventare del tutto insufficienti, anche se la norma di riferimento, il D.Lgs. 198 del 2006, prevedeva espressamente che dovessero essere assegnate risorse economiche alla figura delle Consigliere.

Con le riforme che si sono succedute nel tempo sembrava fosse giunto il momento di potenziare gli organismi chiamati a controllare l’applicazione della normativa antidiscriminatoria sul territorio. Quegli organismi che si devono occupare di discriminazioni di genere nel luogo di lavoro: discriminazioni retributive, licenziamenti collettivi usati per espellere donne dal mondo del lavoro, molestie sui luoghi di lavoro, mancate progressioni di carriera legate al genere.

Insomma, se la tutela maggiore risulta essere quella contro le discriminazioni e se anche la nuova struttura degli enti territoriali è chiamata ad agire contro i comportamenti discriminatori, più forti avrebbero dovuto essere gli organismi che in maniera decentrata da anni si occupano di questi temi, al fine di contrastare comportamenti discriminatori che, invece, continuano ad essere praticati, restando quasi sempre impuniti.

Il nuovo decreto, al contrario, azzera le possibilità di intervento delle Consigliere.

Il legislatore, infatti, ha abrogato il vecchio art. 18 del d.lgs. 198/2006, istitutivo del Fondo nazionale per le attività di tutte le Consigliere, che finanziava le spese relative alle azioni in giudizio promosse o sostenute ai sensi del libro II, titolo I capo III del medesimo decreto legislativo.

Con un’operazione incomprensibile la nuova normativa limita le risorse del Fondo, che rimane ad esclusivo appannaggio della Consigliera Nazionale, la quale peraltro assai raramente nel corso di questi anni ha agito in giudizio a fianco dei lavoratori, compito invece spesso assunto dalle Consigliere del territorio, sia regionali che provinciali.

Con il nuovo decreto si crea pertanto le seguente situazione paradossale: le Consigliere mantengono le funzioni di intervento in giudizio, ma viene abrogato il fondo costituito per finanziare queste azioni di intervento.

Se una lavoratrice molestata sessualmente chiederà alla Consigliera di Parità territorialmente competente di intervenire in giudizio come stabilito dal Dlgs. 198/2006, la Consigliera sarà obbligata dalla legge a farlo, ma al tempo stesso impossibilitata perché la stessa legge ha espressamente abrogato la norma che prevedeva le risorse per le azioni in giudizio!

Quanto al compenso per il lavoro delle Consigliere, la norma introduce un nuovo tipo di assegnazione di risorse: l’assegnazione eventuale!

Secondo il decreto i permessi per assentarsi dal lavoro, utilizzati dalle Consigliere per svolgere il loro compito istituzionale, sono “eventualmente retribuiti” e tale eventualità è rimessa alla disponibilità finanziaria dell’ente di pertinenza (cioè rispettivamente allo Stato per la Consigliera nazionale, alle Regioni per le Consigliere regionali alle Città metropolitane e agli Enti di Area vasta per le Consigliere ex provinciali). Scompare il fondo delle Consigliere alimentato da risorse statali. Stessa cosa dicasi per l’indennità prevista per le Consigliere di parità, siano esse lavoratrici dipendenti o libere professioniste: anche in questo caso fa ingresso nel Codice delle Pari Opportunità il nuovo istituto dell’indennità “eventuale”, rimessa alla disponibilità finanziaria dell’Ente.

L’attività delle Consigliere di Parità diventa pertanto totalmente volontaristica, cristallizzando così una prassi che vede il lavoro femminile, anche se di elevata professionalità, poco retribuito ovvero mal retribuito o, per dirla con il legislatore, eventualmente retribuito.

* L’autrice è una delle curatrici di questo blog, qui la sua biografia

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